È avvenuto quello che si temeva. L’arresto a Barcellona di 14 alti dirigenti del governo catalano, accompagnato da minuziose perquisizioni e dal sequestro di 10 milioni di schede elettorali, è un episodio senza precedenti nella Spagna democratica. Ma è altrettanto grave che il governo regionale della Catalogna, approvando una legge ad hoc, abbia indetto per l’1 ottobre un referendum in barba alla Costituzione per decidere l’eventuale “secessione” della regione spagnola più ricca economicamente che raccoglie 7 milioni e mezzo di cittadini. Il governo nazionale e la Corte costituzionale non riconoscono questa decisione e hanno iniziato da settimane a boicottare la scadenza referendaria. Ieri dalle parole si è passati ai fatti.

Carles Puigdemont, presidente del governo catalano, dichiara: «Ciò che è accaduto equivale alla fine dell’autonomia della regione e alla rottura del patto confederale che tiene insieme le autonomie spagnole». Migliaia di catalani sono scesi in piazza per protestare contro gli arresti. Anche Podemos, con il suo leader Pablo Iglesias, parla «di inaudito ritorno di detenuti in Spagna».

È in corso dunque una guerra giuridica tra Madrid e Barcellona che sta degenerando. I secessionisti più radicali chiedono addirittura che la polizia nazionale abbandoni la Catalogna. Il governo, da parte sua, fa perquisire le tipografie per impedire che si stampino le schede elettorali, ricordando che funzionari e sindaci interessati coinvolti nella preparazione del referendum sono dipendenti dello Stato spagnolo. La maggioranza dei sindaci ha già annunciato l’ammutinamento. Se il muro contro muro continuerà, come è prevedibile, potrebbe essere mobilitato pure l’esercito. Sbaglia perciò l’Unione europea a mantenersi neutrale.

Cosa farà Bruxelles, se dovesse prevalere la secessione? Il riesplodere virulento dei nazionalismi e dell’idea delle «piccole patrie» – di cui il caso catalano risulta paradigmatico – è sintomo della crisi del progetto di Europa politica e inclusiva. Il caso spagnolo è inedito nel diritto internazionale e potrebbe essere imitato da altre realtà (Scozia, Irlanda, Paesi baschi, ecc.). In Europa c’è solo il precedente della Cecoslovacchia, che – in modo tutt’altro che indolore anche se viene considerata consensuale – si divise in Repubblica ceca e Slovacchia nel 1992 con un atto del Parlamento nazionale in modo unanime, ma senza coinvolgimento popolare né referendum e dopo una scelta unilaterale fatta a tavolino dai presidenti ceco e slovacco, Havel e Meciar. Poi c’è la storia sofferta delle repubbliche ex sovietiche ed ex jugoslave. Chi parla di «diritto all’autodeterminazione» nel caso della Catalogna dimentica in quali situazioni quel diritto viene “legittimato”, con tante ambiguità e interessi geostrategici, dalle istituzioni internazionali: dittature, non rispetto dei diritti umani, tentativi di neo-colonizzazione, eccetera.
Le forze politiche indipendentiste che governano la Catalogna hanno radicalizzato via via le proprie posizioni rendendo marginali socialisti e popolari. Solo quest’ultimi, più i centristi di Ciudadanos, ritengono disastrosa l’ipotesi del referendum e della secessione. La sinistra di Podemos non demonizza invece il referendum e le sue conseguenze, auspicando che dopo l’1 ottobre si possa riformare l’idea di Stato spagnolo: intanto accusa l’esecutivo di Mariano Rajoy di aver troppo a lungo ignorato la febbre indipendentista (lo dicono pure i socialisti del Psoe). Il problema però è che non è in ballo una semplice riforma per rendere ancora più federale lo Stato spagnolo: l’obiettivo dei referendari è la secessione tout court. È stato diffuso nel frattempo un appello di intellettuali e militanti della sinistra sparsa e senza partito con l’invito a non partecipare al referendum.

Giunge così al capolinea la storia dei rapporti tra Madrid e Barcellona in quarant’anni di ritrovata democrazia. Quattro decenni di dittatura di Francisco Franco avevano represso le istanze identitarie dei catalani, che non potevano parlare la loro lingua e usare i colori rosso e giallo della propria bandiera regionale. Dai governi di Felipe González dei primi anni Ottanta in poi si è fatta molta strada in Spagna sul terreno delle autonomie regionali sul modello delle nostre regioni a statuto speciale: insegnamento del catalano, trasmissioni tv in lingua regionale, agevolazioni economiche, poteri legislativi regionali, eccetera.

La febbre separatista è andata però crescendo negli ultimi anni fino alla pressione secessionista degli ultimi mesi.

C’è in queste ore drammatiche chi si esercita su scenari futuri. Per esempio, in che campionato di calcio giocheranno Barcellona e Real Madrid? La nazionale che è stata campione del mondo nel 2010 si chiamerà ancora Spagna? Da qui all’1 ottobre avverrà davvero l’irreparabile tra Madrid e Barcellona?