La letteratura sulla criminalità organizzata si basa prevalentemente su approcci di tipo «macro»: la natura dei gruppi criminali, la loro struttura organizzativa, i rapporti con la sfera legale, hanno appassionato studiosi, cronisti e attivisti. Lavori di diversa qualità, hanno privilegiato un approccio di tipo esterno, che dà per scontata l’esistenza di una compattezza interna da parte delle organizzazioni criminali, a partire dalla quale se ne misurano la pericolosità, la pervasività, la durata.

IL LIBRO di Dina Lauricella, Il codice del disonore (Einaudi, pp. 184, euro 17), frutto di un’inchiesta giornalistica tra le donne della ’ndrangheta calabrese che hanno collaborato con la giustizia, si connota per la sua originalità rispetto agli approcci prevalenti. Senza alcuna pretesa di proporre uno studio sociologico, l’autrice sembra muoversi secondo i dettami foucaultiani di un’analisi microfisica delle relazioni di potere, condotta nello specifico tra gli interstizi dei rapporti tra i sessi.

DELLA ’NDRANGHETA calabrese si dice che sia l’organizzazione criminale più potente del mondo, che si mimetizzi abilmente tra le pieghe della società ufficiale, che inglobi nel suo universo arcaico le sfide della società contemporanea. Soprattutto, si dice che sia compatta e impenetrabile. Lauricella scardina le visioni dominanti, scavando nella quotidianità della criminalità organizzata calabrese. Gli ’ndranghetisti si propongono come portatori di valori immutabili nel tempo, fondati sulla consanguineità e l’onore, in grado di resistere alle sfide esterne.
In un contesto simile, le donne occupano una posizione svantaggiata: intrappolate all’interno di un denso reticolo relazionale-funzionale, dove i matrimoni servono a rinsaldare le alleanze tra ’ndrine o a suggellare una pace, le donne possono solo accettare e trasmettere alle loro figlie la sottomissione. Da questo contesto, l’individualità è bandita: nessuna aspirazione diversa dalle aspettative familiari è possibile, nemmeno per i maschi, che debbono conformarsi ai codici di sangue e vendetta che ne preparano l’ascesa criminale. Eppure, all’interno della ’ndrangheta i rapporti interpersonali non scorrono senza produrre conflitti e risentimenti.

LE DONNE, in quanto depositarie dei codici culturali e principali educatrici dei figli, negli ultimi anni hanno rappresentato il nervo scoperto della violenza ’ndranghetista. Costrette ai matrimoni combinati, abusate sessualmente dai parenti col tacito consenso (o con la paura) di madri, nonne e zie, imbevute di una cultura della sopraffazione che dà per scontato che debbano andare in spose ai fratelli dei mariti uccisi, le donne di ‘ndrangheta cominciano a cercare una via d’uscita.

LE NUOVE GENERAZIONI, viceversa, possono avvalersi di due canali per rivalersi della loro dignità violata: uno è quello del programma di protezione dei collaboratori di giustizia, attraverso il quale possono chiamare le loro famiglie a rendere conto della loro responsabilità. La collaborazione, tuttavia, si rivela un percorso impervio, in quanto costituisce una scelta individuale, solitaria, che spesso scatena l’ostilità dei figli stessi, strappati dal contesto originario, e favorisce i ricatti morali delle famiglie d’origine, che ottengono spesso il risultato di far ritrattare le dichiarazioni e attuare ritorsioni che spaziano dalla segregazione all’omicidio. Altre volte, come il caso di Alba A., che chiede all’autrice 100mila euro per un’intervista, più che di una vera e propria scelta di vita, si tratta del tentativo di tirarsi fuori da situazioni pericolose senza abiurare al proprio sistema valoriale. Il secondo canale di fuga è quello della tecnologia.
Molte donne di ’ndrangheta usano i social network per esplorare un mondo che non gli è permesso conoscere. Spesso ne consegue la conoscenza di uomini esterni al loro universo criminale, i quali, sebbene virtuali, assecondano la loro voglia di venire fuori dal contesto sanguinario in cui sono cresciute, e le spingono a opporsi apertamente ai diktat ’ndranghetisti, anche a costo della vita.

È IL CONTATTO con l’esterno, con altri mondi, che le donne necessitano. La combinazione tra femminilità, individualità e tecnologia, sembra suggerire l’autrice, può mettere in crisi la ’ndrangheta più di migliaia di blitz e processi. Si tratta di non lasciarle sole, di creare appigli duraturi, di aprire percorsi di emancipazione dai valori mafiosi. Una strada impervia, ma che esiste, e va esplorata.