Ci sono due madri nel nuovo film di Laura Bispuri, appena presentato nel concorso della Berlinale e da oggi in sala, anche se non è della maternità che parla ma piuttosto dell’essere figlie, o meglio ancora della ricerca di affermare un personale modo di essere donne. Figlia mia è un romanzo di formazione che fa coincidere la scoperta di sé con quella di un femminile «aperto», da sperimentare, che come unico «codice» si dà di non averne assumendo la libertà di prendere da quanto coincide con il proprio «genere» ciò che vuole. Non ci sono cavalieri o principi azzurri o ragazzini imbronciati nell’orizzonte di Vittoria (Sara Casu), la piccola protagonista dai capelli rossi col corpicino trattenuto nella timidezza dei vestiti da bimba e delle regole della mamma pia donna – che ha l’intensità implosa (e la bravura) di Valeria Golino. A scuola le compagne parlano già di baci sulla bocca e lei coi suoi quasi dieci anni le guarda silenziosa, messa sempre un po’ da parte, diversa in mezzo a loro non solo fisicamente.

Poi succede che Vittoria incontra Angelica, chiara e bionda come lei, la vede a una di fiera di cavalli che fa sesso con un tipo nella stalla e fugge spaventata. Ma quella strana donna, sempre in mutande e canottiera (Alba Rohrwacher) l’attrae: c’è qualcosa che sembra riconoscere, qualcosa che le somiglia, un’appartenenza, un legame genetico, del sangue, è uno specchio e il contrario della madre, fragile, disperata, ondeggia tra quel maschile-macho calpestata ma con una sua strana forza… Siamo in qualche parte della Sardegna d’estate, si sentono il caldo, il vento che porta con sé il mare, il sole che brucia. Ma quello di Bispuri più che un luogo «reale» appare come un paesaggio del femminile a partire dagli archetipi imposti nei secoli: puttana e madonna, santa donna e donna perduta, le due Madri che forse sono una sola, che forse nemmeno esistono se non come possibile proiezione estrema nella percezione della ragazzina.

Peché è lei il punto di vista narrativo e con lei fa coincidere il suo sguardo la regista nella ricerca di una rinascita con cui mettere alle spalle la Madre, sia adottiva o culturale che biologica coi suoi modelli e le sue imposizioni. O forse ciò che gli altri vogliono sia la Madre, la Donna, le sue rappresentazioni non controllate, imposte, prestabilite. Angelica è un cow-boy e sembra non avere paura di nulla, Tina è un’operaia e sembra avere paura di tutto, del segreto, di avere comprato la figlia, di Angelica, di sé stessa. Istintiva, animale, nonostante la disperazione Angelica è per la ragazzina la scoperta di qualcosa che non ha mai conosciuto, capovolge il suo ruolo di figlia da curare, da proteggere come la mamma che l’ha cresciuta ha sempre fatto, perché è lei, questa adulta scombinata a avere bisogno di cura. Dove mettersi, da quale parte? E se invece ci fosse qualcos’altro?

Le questioni di genere, di identità, erano al centro anche del film precedente di Bispuri (autrice della sceneggiatura insieme a Francesca Manieri), Vergine giurata (presentato lo stesso in gara alla Berlinale), in cui si raccontava la scoperta del corpo, della sessualità di una donna costretta dentro a un «corazza» maschile, suo malgrado, dalle tradizioni del proprio Paese – era l’Albania ove in certe zone le famiglie senza figli maschi danno a una figlia femmina il compito di assumere la guida familiare rendendola uomo con promessa di verginità.

Con Figlia mia Bispuri continua quella esplorazione mettendo al centro stavolta l’intera idea di rappresentazione del femminile a partire, appunto, dagli stereotipi più antichi. In quel paesaggio gli uomini non esistono, o sono padri opachi o predatori stupidi, a cui offrirsi per un bicchiere di mirto, nelle loro lunghe notti dei bar. Vittoria, esile e determinata, ci conduce piano piano attraverso una realtà che non è reale, che è quella delle sue scoperte, della conquista di una consapevolezza di sé, delle possibilità di stare al mondo, di una ribellione contro la figura materna, anch’essa quasi letteraria, che qui però coincide col desiderio (della regista e del piccolo personaggio) di un’altra immagine di donna interamente da inventare.

È la stessa cosa che Bispuri chiede allo spettatore disorientando i suoi punti di riferimento narrativi e della rappresentazione oltre il principio di realtà che rende le due Madri entrambe un po’ respingenti. Anche lei però esita (cinematograficamente) sulla soglia di questo paesaggio archetipico opponendovi la sicurezza della «storia» – la nascita di Vittoria, il passato di Angelica … – o un eccesso di determinazione nella ragazzina. Da regista anche la sua come quella del personaggio è una ricerca, film dopo film vedremo verso dove.