Due donne, una quarantenne, l’altra adolescente, una maternità: nella stanza di ospedale prima del parto si incontrano Janis – «come Janis Joplin» (Penélope Cruz), e Ana (Milena Smit), la prima fotografa di moda, la seconda una ragazzina spaventata con la madre elegantissima che viene a trovarla parlandone della parte da protagonista conquistata finalmente a teatro. Per entrambe diventare madre è stata una sorpresa, Janis single non se l’aspettava e l’uomo con cui ha una relazione è sposato, Ana invece tace sul padre, scopriremo poi che è stata una violenza a scuola. Quando le loro bambine nascono le due donne tornano a casa, nella routine di neo-mamme, poi accade qualcosa che spinge Janis a fare un test del dna col quale scopre che la piccola Cecilia non è sua figlia biologica, quel visetto un po’ troppo «etnico» (ovvero indio), come le dice l’amica del cuore Rossy De Palma, non somiglia a nessuno, meno che mai al suo uomo.

Forse una discendenza lontana visto che la nonna diceva che suo padre (mai conosciuto) era venezuelano? O piuttosto uno scambio di culla – e di identità che è un luogo letterario molto amato dal regista – attorno al quale si muove Madres Paralelas, il nuovo film di Pedro Almodóvar che ha aperto ieri in concorso la Mostra di Venezia 78. Un melodramma nella Spagna ricca del lusso e delle belle case borghesi, lungo i rispecchiamenti – come suggerisce il titolo – di una linea femminile in cui maschi sono fuoricampo, violenti, prevaricatori, ignoti, o forse solo svagati. L’unico che attraversa l’inquadratura è Arturo, l’avvocato forense con cui Janis ha messo al mondo la figlia, che si dibatte però nei tormenti e nei sensi di colpa verso la moglie malata incapace di una scelta.

I FRAMMENTI di questo universo, come sempre nel regista spagnolo legato alla realtà e insieme nell’assoluto letterario, si sfiorano costantemente dentro alla verità che Janis è la sola a conoscere e rispetto alla quale però predilige la rimozione: a fronte di questa sua scelta gli altri vivono nell’indifferenza provocata dal suo silenzio, nelle certezze quotidiane che ignorare le cose permettono, ciascuno adagiato nel proprio mondo. È strano perché invece proprio lei si batte da anni per riaprire la fossa nella quale si sa sono stati gettati i resti del suo bisnonno ucciso insieme a molti altri uomini del paese dai falangisti durante la guerra civile di Spagna. E l’avvocato forense è entrato nella sua vita in questo modo. Dunque? Perché non riuscire invece a affrontare questa terribile evidenza di non essere la madre biologica della figlia? Ma al tempo stesso: è la biologia la sola misura dell’amore e della relazione o non eravamo piuttosto riusciti da qualche parte a affermare il contrario?

Ci sono molti temi che si stratificano nel film, quasi che Almodóvar abbia voluto comporre una sorta di summa in cui si incastrano le figure ricorrenti della sua poetica nel corso degli anni, seguendo uno strano detour che lo porta invece che a scompigliare a mettere in ordine, a trovare una casella per amori, genitorialità, desideri, amicizia, relazioni grazie al presente che finalmente si accorda al passato e gli dà voce: la Spagna di oggi che ignora tutto, come la giovane Ana la cui «filosofia» indotta dal padre (probabilmente di famiglia fascista come lui) è «guardare al futuro», e quella di ieri col suo bagaglio pesante di guerra civile e dunque del franchismo che trova una parola. Lo sa lui, Almodóvar, che da quegli anni viene e nella fine della dittatura inizia la sua arte, giovane generazione che finalmente può cominciare a respirare in un sogno di futuro sfacciato e irriverente – pensiamo al suo esordio, Pepi, Luci, Bom, y otras chicas del 1982, e a Labirinto di passioni presentato nel 1983 al Lido.

IN QUESTO SENSO i personaggi di Madres Paralelas sono degli archetipi, incarnano il femminile e le sue declinazioni – le violenze subite in nome di patriarcato, il gender – ma anche la Spagna della colonizzazione e dei massacri contro gli indios – non a caso la madre di Ana interpreterà a teatro Donna Rosita di García Lorca – e insieme i valori intimi che riguardano affetti, aspettative, fragilità nel vissuto di ciascuno.
Molto, troppo per evitare inciampi e perdere il filo della narrazione che si apre sulla «promessa» di un nuovo recupero della guerra civile attraverso i resti per lasciarla indietro, anzi trasporla nel labirinto maternale con un effetto di forzatura in alcuni passaggi un po’meccanico. Sarà l’aria dei tempi (e del dna) che prediligono incasellare sentimenti e desideri anche quando pretendono di liberarne nuove possibilità.