Sul palco prima della proiezione Chantal Akerman ha voluto spiegare al pubblico che il suo film ha bisogno di pazienza e di disponibilità, e che ci si deve lasciare andare. La voce era quasi alle lacrime, eppure non è certo una regista inesperta, o poco battagliera sin dai suoi esordi con Jeanne Dielman, ma questo film ha una dimensione intima forte, senz’altro dolorosa, in cui lei regista si mette apertamente in gioco.

No Home Movie come suggerisce il titolo non è semplicemente un film «familiare» anche se davanti all’obiettivo di Akerman c’è sua madre che lei – lo intuiamo soltanto, non c’è mai nulla a parte un momento con la badante detto fuori dalle loro conversazioni – inizia a filmare probabilmente sapendola malata. La vediamo muoversi nella casa in Belgio dove è arrivata nel 1938 dalla Polonia fuggendo le persecuzioni. Pensavano di essere al sicuro e invece i nazisti poco dopo li hanno raggiunti con il loro piano di sterminio. Ma questo, l’Olocausto, l’essere ebrei come materia fondante una storia familiare che a un certo punto mette da parte la pratica religiosa – il padre della regista non vuole che si seguano più le tradizioni – è solo una delle linee narrative.Prima c’è il rapporto tra la regista e la mamma in cui questo entra, seguendo appunto la necessità di Akerman di «ricostruire» una memoria storica nell’esperienza familiare, ma che è soprattutto tenerezza, amore, con la madre che guarda ancora quella figlia come la ragazza eccentrica piena di idee bellissime e un po folli. Che poco importa se non sai cucinare perché sa fare tante altre cose bellissime.

«Un film sul mondo che cambia e che mia madre non vede» lo definisce Akerman No Home Movie – in concorso.

Quando non è in Belgio la chiama via skype dall’America, la donna le chiede: perché mi filmi? Per dimostrare che le distanze non esistono più risponde la regista. E lei ride, orgogliosa di lei, delle sue intuizioni, preoccupata di mangiare quello che le prepara per non deluderla anche se deve sforzarsi sempre di più per inghiottire ogni boccone. La donna esce pochissimo, è stanca, il mondo è la voce della figlia con le sue storie, il suo chiederle del passato, la sua ostinazione a scrivere una Storia che la madre invece sembra non voler sottolineare. O nella quale non sembra trovare gli stessi significati. Parlano della nonna, la madre di sua madre, che forse aveva un amante, quell’amico speciale che l’ha sempre aiutata. Era una femminista prima del tempo dice Akerman, la madre sorride. Poi altri parenti, altri esili, altre fughe. I tedeschi che si impossessano del Belgio e il padre di Akerman che rifiuta la stella gialla.

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E i ricordi della madre della figlia, gli occhi blu quando era piccolina che tutti guardavano incantati. L’esterno è l’ombra della regista riflessa nell’acqua torbida, sono le lunghe fughe nel paesaggio sul confine di un deserto. Le domande che rimangono sospese, e che non sempre trovano quelle risposte che lei attende.
È anche in questa esigenza di «memoria condivisa» che la regista si mette in gioco, intrecciata in quella dimensione amorosa intensa, e commuovente nel gesto di voler trattenere istanti, sguardi, sorrisi, presenza.

Lì nello spazio condiviso dell’attesa in cui il tempo cola impercettibile, mentre la madre diventa sempre più stanca e cerca rifugio nel sonno, scorre il movimento della vita. Pensiamo alle ragazze in rivolta, come la protagonista di Akerman del suo episodio nella serie anni Novanta Toutes les garcon et les filles, poco prima del Sessantotto a Bruxelles, con l’adolescente che al mattino salta la scuola e dalla borsa tira fuori la minigonna in cerca del suo tempo, contro i genitori che impongono regole. Negli anni cambiano i rapporti, e cambiamo noi: quale diventa la posizione rispetto ai genitori, e appunto alla propria storia? Nella cucina dall’aria antica, come appaiono spesso le case dei genitori, le due donne scherzano, lasciando intuire discussioni passate, ed è come se la regista dichiarasse il suo bisogno di un riferimento mentre la madre sta andando via; di una dimensione collettiva di appartenenza e di identità condivisa in cui ritrovare quella parte preziosa di sè, avere delle certezze, poter fondare le sue interpretazioni.

E ha ragione Akerman a dire che al suo film ci si deve abbandonare: sono i bordi delle immagini che ci permettono di trovare il nostro posto, di farci entrare dentro qualcosa che seppure in forma diversa ci riguarda, un’emozione, una ricerca che per ognuno assume vie possibili. Quel «madre e figlia»che viene prima di tutto, che interroga il presente e il futuro di un’assenza, di una parola negata, di un ruolo da ritrovare. Tra i salti virtuali, la vicinanza fisica, la stanza da ragazza, si snoda una relazione profonda e unica nei conflitti e nel suo assoluto, quel trasmettere che esige insieme porsi all’ascolto. Ancora un atto d’amore.