A firma di Nelson Mandela e (più piccolo) Mandla Langa, La sfida della libertà – Come nasce una democrazia (Feltrinelli, pp. 400 circa, euro 25) è il sequel naturale di Lungo cammino verso la libertà, dalle cui ultime righe trae peraltro il Dare Not Linger del titolo originale e l’orizzonte che ne consegue, per il nuovo Sudafrica e il suo primo presidente: Madiba ha infine raggiunto la cima della montagna, ma dopo essersi rifocillato e aver goduto del panorama quel tanto che basta per crederci, si rimette subito in marcia, rinunciando al riposino che pure in cuor suo sentiva di essersi meritato.
Comincia l’ultimo e forse più importante pezzo di quel cammino, non così lungo ma infestato di ostacoli, figlio del clima mozzafiato che ha istruito la transizione e le prime elezioni libere. Una miscela di gioia e alta tensione, di sangue e arcobaleni, che avrebbe potuto sortire effetti disastrosi senza il rigore quasi zen coltivato da Mandela nei lunghi anni di prigionia e senza il cuore gettato di volta in volta oltre l’ostacolo dai suoi compagni di lotta, per far nascere una democrazia inclusiva lì dove c’era stata solo la brutale supremazia su base razziale di una minoranza.

C’È DA CONDURRE un duello di fioretto con i falchi del National party, gestire le teste calde di tutte le fazioni, soppesare l’ombra inquietante della «terza forza». Fatto. C’è da sfidare lo stesso Anc e la sua base nell’approccio alla patata bollente dell’irredentismo zulu, forse la più seria delle minacce neutralizzate alla vigilia del voto. Fatto. Ci sarà poi da scongiurare il classico avvelenamento dei pozzi al momento di prendere possesso della macchina amministrativa e dei settori nevralgici dello stato, in primis i servizi di sicurezza, senza scossoni pericolosi e allo stesso tempo senza troppi compromessi. Fatto anche questo. Ma dopo aver disinnescato il rischio della carneficina inter etnica, dopo aver imbrigliato il separatismo bellicoso della destra afrikaner e l’indole complottarda di ampi apparati dello Stato, bisognerà fronteggiare anche i prodromi di un certo rilassamento, una deriva interna all’Anc che oggi ha la sua traduzione eclatante nel declino malinconico e incattivito della presidenza Zuma. Insieme ai grattacapi che arrivano da sinistra, dalla Lega giovanile dell’Anc e dalla progressivamente ex moglie Winnie Mandela. Tutto fatto e niente a posto, come sapeva bene anche lui.

La storia inizia il giorno (11 febbraio 1990) in cui il prigioniero più famoso del mondo lascia il carcere di Victor Verster, attraversa gli anni dei difficili negoziati e sfocia nell’unico mandato presidenziale di Mandela (1994-1999). La sfida delle libertà che diventa sfinimento delle responsabilità, il disincanto che per contro non produce sconforto. Avendo come traguardo ideale l’ultimo discorso da capo politico dell’African National Congress, nel 1997, ispiratissimo e concreto passaggio-del-testimone che inaugura per tempo (i saluti in Africa sono una cosa seria) la fase dei bilanci e del commiato. The Presidential Years era anche il titolo ipotizzato da Mandela per queste sue ultime memorie mai concluse, un sogno rimasto chiuso nel cassetto in cui aveva svuotato tutti i cassetti della sua scrivania presidenziale.

UNA BELLA RESPONSABILITÀ se l’è presa anche Mandla Langa, l’«autorevole voce della letteratura sudafricana contemporanea» che entra in scena per sopravvenuta impossibilità dell’autore di finire il lavoro. In fondo è uno di quelli che Mandela non si stancava mai di ringraziare nei suoi discorsi per il contributo dato al miracolo sudafricano: figlio di una township derelitta, prima poeta di punta del Black Consciousness Movement, poi il carcere, l’esilio, i campi di addestramento angolani dell’Mk, l’ala militare dell’Anc, l’impegno per la rinascita anche culturale del Paese: ha il profilo perfetto per il ruolo a cui è chiamato, ritrovarsi a tu per tu con i manoscritti, la grafia pacata e demodé di Madiba, gli appunti presi su un’agenda scaduta, i fogli di protocollo che poi la segretaria particolare Zelda la Grange avrebbe battuto a macchina. In principio ci sono le bozze di una decina di capitoli che Mandela ha scritto e riscritto – come racconta Graça Machel nel prologo – prima di arrendersi all’età e al tempo fuggevole dei mille impegni.

IL LAVORO POSTUMO di Mandla Langa non è una seduta spiritica, un’operazione per intenderci come quella in cui Natalie Cole, figlia di Nat King Cole, duetta in un disco con la voce del padre defunto. La sua orchestrazione d’autore prevede generosi raccordi «strumentali» in cui la voce solista di Mandela dialoga con i ricordi, gli spunti dei suoi collaboratori più assidui, le impressioni di chi si è trovato a interagire con lui, magari da avversario, le dissonanze di coloro, compagni o meno, che lo hanno deluso. Per restituire il serrato responsoriale di celebrazioni e preoccupazioni, di ambiziose strategie e battute d’arresto, di persone, incontri, trappole a non finire e infinita fiducia di superarle, una parte interessante viene assegnata anche ai discorsi e ai documenti pubblici.

SI RACCONTA delle «emozioni forti, spesso contrastanti» di Mandela come della spontaneità che lo sostenne ad esempio nella faccenda degli Springbok e dei mondiali di rugby del 1995. Sempre contrastando, nei limiti del possibile, «l’idea di un santo disinteressato che non ha opinioni proprie». Ma certo esaltando quella sua capacità di manifestare e ispirare fiducia nell’altro fino a prova contraria. Si percepisce tutta l’energia convogliata sul Programma di ricostruzione e sviluppo, così come le frustrazioni legate al processo di Verità e riconciliazione, che evita vendette ma non garantisce piena giustizia.
Rabbia mai, al massimo una forte irritazione come quella generata dal comportamento di Laurent Kabila – siamo qui al Mandela statista internazionale che si adopera nella risoluzione dei conflitti africani – che lo pianta in asso con tutte le parti del negoziato riunite insieme all’Onu per un secondo round di colloqui su una barca sudafricana ancorata a Pointe Noire. Sono gli ultimi giorni del regime di Mobutu in Zaire e Kinshasa è ormai assediata dai ribelli dell’Afdl. Kabila malgrado la parola data diserta l’incontro o ordina l’attacco finale. Quando finalmente si decide a rispondere al telefono, Mandela se lo mangia vivo. Al confronto il rifiuto di P. W. Botha di comparire davanti alla Commissione di verità e riconciliazione, nel 1997, è un lieve imbarazzo.

OGNI PASSAGGIO – compreso quello cruciale della successione – aiuta a capire meglio anche il Sudafrica di oggi e il modo in cui le prime mosse del neo presidente Cyril Ramaphosa sembrano voler riannodare il filo con quell’esperienza fondativa. Anche quando apre al riottoso fianco sinistro degli Economic Freedom Fighters sulla questione degli espropri e della ridistribuzione delle terre, evoca le spiazzanti strategie empatiche sfoderate da Mandela nel corso dei negoziati più complessi. Con porzioni variabili di populismo e real politik, l’evidenza dei conti stipulati all’epoca e ancora da saldare.

IL MODO REPENTINO in cui il primo ministro cinese Li Peng convinse Mandela che sbagliava di brutto a nazionalizzare, che bisognava anzi privatizzare, Mandla Langa lo racconta incrociando le memorie di F.W. De Klerk e una sua intervista alla stessa Graça Machel. La vedova Mandela, già vedova di Samora Machel, custode e amministratrice del patrimonio anche morale accumulato da Madiba. Tutto sommato mantiene un profilo basso, si limita a garantire sull’assoluta bontà delle fonti e sull’«eleganza» del lavoro svolto dal Mandla Langa. Ma soprattutto certifica come il fermo desiderio di condividere con il mondo i fatti e le riflessioni maturate in questo periodo, come era accaduto nella scrittura di Long Walk To Freedom, derivasse per Mandela dal senso di responsabilità, di nuovo, che avvertiva nei confronti dei movimenti di liberazione africani. Soprattutto quelli, possiamo aggiungere, che prima o poi dovranno affrontare anche la «sfida della libertà» Yes, we can. E ora vi racconto come.