I In concorso al Festival di Rotterdam con Madalena, il suo film d’esordio, Madiano Marcheti è nato e cresciuto nello stato brasiliano (Mato Grosso) in cui è ambientato il suo lavoro, dove negli sterminati campi di soia che circondano una piccola cittadina viene ritrovato il cadavere della donna transessuale che dà il titolo al film: Madalena. La sua scomparsa e la sua morte vengono viste attraverso la prospettiva di persone diverse, senza rapporti tra loro: la collega Claudia – che come spiega Marcheti reagisce «con apatia» al fatto che Madalena non si trova più da nessuna parte -, il rampollo della famiglia proprietaria di quei campi di soia, Cristiano, e la transgender Bianca, che con le altre amiche di Madalena elabora il lutto e il dolore per la sua scomparsa.

Come ha deciso di fare un film su una protagonista «assente»?
L’idea è nata dal desiderio di raccontare il posto da cui vengo, sulla frontiera agricola brasiliana, mi interessava metterne in scena le dinamiche sociali e politiche. Da persona omosessuale che è cresciuta in quei luoghi, sentivo l’urgenza di gettare una luce su cosa si prova a non essere conformi a quella che viene percepita come la norma. E durante la fase di ricerca per la preparazione del film mi è apparsa evidente la necessità di raccontarlo attraverso il prisma dell’esperienza delle persone transessuali, sottolineare la violenza contro di loro. Nell’ambito dell’intolleranza nei confronti della comunità Lgbtq in Brasile le persone transgender sono infatti di gran lunga quelle che soffrono di più, le più perseguitate e spesso vittime di omicidio. Volevo mostrare come le dinamiche di potere e l’oppressione sociale influenzino la vita della gente – un processo in cui la morte è la manifestazione più evidente di questa violenza.

L’impressione è che la violenza sia cresciuta negli ultimi anni, durante il governo Bolsonaro, e non solo contro le persone transessuali ma nei confronti di chiunque venga percepito come «diverso».
C’è senza dubbio una di crisi di empatia endemica nel nostro Paese, ma che si è acuita gravemente negli ultimi anni, dopo l’elezione di Bolsonaro. Il fatto stesso di realizzare un film che affronta i temi della «diversità», della violenza contro le persone transgender, è percepito come un attacco, qualcosa di scandaloso, da una parte della società, pervasa dalla stessa tossicità di cui è affetta la politica.

Il personaggio di Cristiano sembra proprio essere una manifestazione della mancanza di empatia: appartiene a una classe privilegiata, avulsa dal resto della società, e per lui il cadavere di Madalena nei campi di famiglia è un problema puramente pratico.
I tre personaggi al centro del film sono una conseguenza della decisione di approcciarmi a questi luoghi attraverso diversi punti di vista. La figura di Cristiano è inserita in un contesto di potere, è membro di una famiglia di proprietari terrieri – ma volevo costruire il suo personaggio in modo stratificato, complesso, per evitare che gli spettatori lo associassero immediatamente con il «cattivo», anche se rappresenta il tipo di persona in grado di fare del male a Madalena. Ma quello che mi interessava era esplorare il disagio con cui reagisce al suo cadavere: c’è una chiara gerarchia negli interessi di Cristiano, che gira intorno alla proprietà della terra, la campagna elettorale della madre, il potere politico, l’immagine e lo status della sua famiglia. Si identifica nelle cose che per lui sono importanti. In questo senso incarna la crisi dell’empatia che affligge il Brasile.

Una crisi evidente anche nel modo in cui sta venendo gestita l’emergenza sanitaria. Nella regione in cui è ambientato il film il Covid sta decimando le popolazioni indigene senza che il governo intervenga in alcun modo.
È una crisi trasversale, non necessariamente legata alla violenza contro le persone transgender: si esplicita ovviamente anche nella violenza contro i nativi, sotto forma di violenza istituzionale, generalizzata, nel negazionismo nei confronti della scienza, la manipolazione della verità… Tutto questo fa parte del medesimo fenomeno di polarizzazione della società brasiliana, costantemente alimentata dal presidente per compiacere la sua base elettorale. Madalena affronta questa crisi da un punto di vista molto specifico, ma si tratta in fondo dello spirito del tempo in Brasile.

Rispetto a questa violenza non è casuale che l’ambientazione principale di «Madalena» sia una piantagione di soia.
Essendo cresciuto in un luogo come quello che mostro nel film, nel corso degli anni sono stato testimone della trasformazione del paesaggio. Sono consapevole che la mia stessa famiglia fa parte di questo processo, ma non si possono ignorare le conseguenze critiche che queste trasformazioni hanno avuto sulla regione: il disastro ambientale e l’impatto di questo modello di sviluppo tanto sulla dimensione locale che su quella globale – perché è parte della crisi climatica di cui tutti paghiamo le conseguenze. E naturalmente gli effetti sulle vite delle popolazioni indigene che abitavano in quei territori prima dell’espansione della frontiera agricola. Il paesaggio fa parte del film non solo come un’ambientazione, ma come un vero e proprio personaggio, che crea tensione e significati. Volevo rappresentarlo in modo che avesse una qualità inerentemente ostile, come se fosse infestato, doveva comunicare la sensazione di un mondo fuori controllo. Oltre alla varietà di punti di vista umani nel film ci sono anche quelli non umani: degli animali, delle macchine come i droni che sorvolano i campi, dello spirito di Madalena. Incarnano l’opposizione – da cui nasce la tensione del film – fra la natura domata dall’essere umano, dalla tecnologia, i pesticidi, e ciò che resta delle foreste decimate da questa «addomesticazione».

Il cinema e la cultura brasiliani sono anch’essi sotto attacco da parte dell’amministrazione Bolsonaro. I fondi di Ancine (l’organo cinematografico statale che è fra i produttori di «Madalena», ndr) sono stati tagliati drasticamente dal governo, e il presidente ha anche minacciato di smantellarla.
Fare film in Brasile è sempre stata una sfida, ma è diventato molto più difficile – perfino impossibile – negli ultimi anni, a causa dei limiti imposti dal governo al settore creativo. È tutto parte di un deliberato progetto politico e ideologico che ha individuato nel settore culturale un nemico del governo: le istituzioni coinvolte nella produzione dell’arte – fra cui Ancine – sono oggetto di attacchi sistematici. Le si vuole smantellare, indebolire i meccanismi di finanziamento che esistevano prima. Ma per quanto riguarda specificamente il cinema, il settore continua a resistere: i filmmaker non hanno mai smesso di combattere contro questi passi indietro. E credo che Madalena si inserisca in questo contesto di resistenza. Abbiamo cominciato la produzione cinque anni fa quando la situazione era diversa, ma nella fase finale ha incontrato molte difficoltà dovute proprio al caos creato dal governo. E tuttavia il fatto che sia stato selezionato da un festival come Rotterdam, insieme a un altro film brasiliano (Carro rei di Renata Pinheiro, ndr) è una dimostrazione della forza del cinema in Brasile: penso che alla fine ciò che verrà ricordato è proprio questa forza.

Alla mancanza di empatia che pervade il film si oppone la speranza dell’episodio finale.
Il personaggio di Bianca scarta dall’apatia e l’individualismo con cui gli altri due protagonisti reagiscono alla morte di Madalena. Volevo rappresentare il suo gruppo di amiche transgender che vanno avanti con la loro vita quotidiana, parlano dei loro sogni, si proiettano nel futuro, mentre elaborano lutto. Perché dà modo allo spettatore di identificarsi con questi personaggi, di immedesimarsi nel loro dolore, provare appunto dell’empatia.