Uno dei decreti attuativi della Legge 7 agosto 2015, n. 124 «Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» (la c.d. Riforma Madia della PA) è denominato «Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica» ed è attuativo dell’art.18 della suddetta legge. Con questo testo e al grido di «Ridurre i carrozzoni e tagliare le partecipate», il governo si è posto l’obiettivo di portare a 1000 le attuali 8000 società a partecipazione pubblica.

Che l’universo delle società partecipate dagli enti locali sia divenuto un contenitore dentro il quale è stato inserito di tutto e di più sembra evidenza quotidiana. E, tuttavia, una seria riflessione sul tema non dovrebbe prescindere dalla causa fondamentale che ha determinato la proliferazione di Spa all’interno della pubblica amministrazione: il patto di stabilità interno.

Con la stretta imposta sul turn over del personale (- 60.000 lavoratori in 10 anni), i vincoli alla possibilità di effettuare investimenti (quasi azzerati negli ultimi sette anni) e i tagli alla spesa, gli enti locali sono stati praticamente invitati all’esternalizzazione di ogni loro funzione, delegandola a enti di diritto privato (Spa), allo scopo di escluderne le spese dai bilanci dell’ente.

Questo processo ha avviato e diffuso i percorsi di privatizzazione, consentendo nel frattempo, agli enti locali di utilizzare la pletora di società partecipate costituitesi per i più diversi scopi: dalla proliferazione dei consigli di amministrazione in cui inserire il politico di turno («trombato» alle elezioni o a fine mandato), alla possibilità di assunzioni dirette e di conseguenza clientelari, all’utilizzo delle stesse come bancomat per i Comuni che non avrebbero altrimenti potuto giustificare interventi di spesa.

Una situazione di drammatica deriva che ha messo in crisi la stessa funzione pubblica e sociale da sempre ricoperta dai Comuni.

Ma, invece di aprire una seria riflessione su questo tema e sulla necessaria reinternalizzazione dei servizi pubblici locali e una loro gestione pubblica e partecipata dai lavoratori e dalle comunità di riferimento, la casta dei potenti (il governo) grida contro la casta dei ras territoriali (le società partecipate) per rendere definitivi i processi di privatizzazione dei servizi pubblici locali.

Che ne sarà degli oltre 100.000 lavoratori che attualmente vi operano –e che, in gran parte, sono possessori di un sapere sociale e territoriale di grande qualità- è problema di così scarso interesse per il ministro Madia, da non prevedere altro che la consueta lista di mobilità, ovvero un portale dove verrà espressa la domanda ( i lavoratori) e non comparirà mai l’offerta (essendo le assunzioni pubbliche pressoché bloccate).

Inoltre, non si può non notare come, dentro questa campagna «moralizzatrice» condotta dal governo Renzi, oltre 40 aziende partecipate vengano salvaguardate a prescindere (CdA e stipendi compresi) -fra queste Anas, Arexpo, Coni, Expo, Eur spa, Gse, Invimit, Invitalia, Istituto poligrafico e Sogin – mentre il controllo su eventuali danni erariali provocati dagli amministratori delle partecipate viene sottratto alla Corte dei Conti e affidato ai molto meno celeri tribunali ordinari.

Parrebbe solo un enorme pasticcio, ma, se visto in collegamento con l’altro decreto Madia, relativo ai servizi pubblici locali, lo scopo diviene evidente: accelerare e rendere definitiva la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici locali.

Più volte nel corso della sua carriera, il ministro Madia si è vantata di «non sapere»: principio socratico per antonomasia, ma solo a patto che lo si consideri un punto di partenza e non di arrivo.