L’illusione fatta balenare dal governo che la stangata della riforma della Pubblica amministrazione fosse il prezzo da pagare per ottenere il rinnovo del contratto per i tre milioni di lavoratori statali, bloccato dal 2009, è durata lo spazio di qualche mese. Ieri è toccato alla ministra Marianna Madia – ovvio che le cattive notizie non le dia il premier Renzi – annunciare ufficialmente che il blocco proseguirà anche per il 2015, allungandolo dunque a sei anni.

La ratio del governo Renzi è questa: gli statali vengono considerati non licenziabili e dunque “privilegiati” rispetto al resto dei lavoratori dipendenti, ragion per cui in un periodo di vacche magre il rinnovo del loro contratto può attendere. «In questo momento di crisi le risorse per sbloccare i contratti a tutti non ci sono – ha spiegato Madia al Senato nel corso dei lavori sull’approvazione della riforma che porta il suo nome – Prima di tutto guardiamo a chi ha più bisogno, confermiamo gli 80 euro di bonus anche ai lavoratori pubblici».

Formalmente la decisione sarà presa nella legge di Stabilità ma proprio per far capire che le risorse da trovare non sono infinite – la stima parte già da quota 20 miliardi, di cui 8 solo per rinnovare il bonus degli 80 euro – il ministro Padoan e Renzi hanno deciso di chiudere la querelle con un mese di anticipo: poco o tanto che sia, i soldi per il rinnovo del contratto degli statali non dobbiamo trovarli affannosamente.

Fino all’unico e velocissimo incontro con i sindacati – due ore facendo parlare ognuna delle quindici sigle presenti per qualche minuto alla vigilia della presentazione della riforma – la ministra Madia era rimasta abbottonata: «I soldi per il rinnovo del contratto dovranno essere stanziati nella legge di Stabilità, lì si deciderà, io però prometto l’impegno a rinnovare la parte non economica del contratto», aveva detto il 12 giugno a palazzo Vidoni.

Quanto valga il mancato rinnovo per le tasche non certo piene dei
dipendenti pubblici è presto detto: in media dal 2010 – primo anno di blocco – «i lavoratori perderanno 4.800 euro, di cui 600 nel prossimo anno», calcola Michele Gentile della Cgil.

E così per i 3 milioni di lavoratori pubblici rimangono solo i sacrifici imposti dalla riforma in corso di approvazione. Se per il dimezzamento dei distacchi e dei permessi sindacali è bastata una circolare della scorsa settimana della ministra, bisognerà attendere il voto definitivo del Parlamento – «entro l’anno, non vogliamo andare in letargo», ha promesso ieri la stessa Madia – per far partire la mobilità entro i 50 chilometri per i lavoratori considerati in esubero, e per gli stessi c’è il rischio di demansionamento.

La reazione dei sindacati è dura. A menare le danze ci pensa Raffaele Bonanni che difende a spada tratta l’ex feudo cislino dei lavoratori pubblici rilanciando il cavallo di battaglia del taglio delle società partecipate: «Il governo deve togliere i soldi agli enti pubblici, alle Regioni, ai Comuni e alle aziende municipalizzate, non ai dipendenti pubblici – attacca – Stiamo ancora aspettando iniziative di spending review».

All’attacco anche Giovanni Faverin, segretario dei lavoratori pubblici della Cisl: «È l’ennesima prova del bluff che sta dietro a un esecutivo che non sa fare neanche il minimo sindacale – protesta – Tra annunci e chiacchiere il governo conferma il blocco dei contratti per lavoratori che hanno già perso circa 3.000 euro a famiglia. Si dovevano trovare 2 miliardi per garantire un diritto sacrosanto ai dipendenti pubblici, senza chiedere altre tasse ai cittadini, e invece ci si continua a nascondere dietro agli 80 euro di bonus, che poi, i lavoratori finiranno
per pagare in aumenti di tasse e nuovi tributi».

Altrettanto dura Rossana Dettori, segretaria generale della Funzione pubblica Cgil: «È intollerabile che dopo aver promesso il contrario, la ministra comunichi la prosecuzione del blocco dei contratti. I lavoratori pubblici hanno già contribuito al risanamento, e perso oltre 4 mila euro in 5 anni. Se il governo pensa di umiliare ulteriormente i dipendenti pubblici, contrapponendo il loro diritto al contratto all’interesse generale, la nostra risposta non potrà che essere la mobilitazione, torneremo nelle piazze».