Nel Pd la pax lettiana è già finita. A tre giorni dal voto per la nuova capogruppo alla Camera, Marianna Madia -una delle due candidate- lancia un atto d’accusa all’uscente Graziano Delrio e alla rivale Debora Serracchiani. «Quello che poteva essere un confronto sano tra persone che si stimano si è subito trasformato in altro», scrive in una dura lettera ai colleghi deputati.

«Immediatamente si è ripiombati nel tradizionale gioco di accordi trasversali più o meno espliciti con il capogruppo uscente, da arbitro di una competizione da lui proposta, che si è fatto attivo promotore di una delle due candidate, trasformando il confronto libero e trasparente che aveva indetto in una cooptazione mascherata».

L’accusa è chiara: «C’è una distanza tra forma e sostanza», tra la «radicalità» chiesta da Letta e dalla base e i soliti accordi tra correnti. E del resto la rabbia di Madia deriva dal fatto che su Serracchiani si sono saldati i voti degli ex renziani, dell’area Franceschini e di quella di Delrio. Totale: oltre 60 voti su 90, e dunque una vittoria già scritta per la ex presidente del Friuli.

Che contrattacca con una sua lettera: «Non posso credere che Marianna intenda riferirsi a me come a una persona cooptabile e quindi non autonoma. No, l’autonomia è stata la cifra della mia storia personale e politica».

Anche Delrio interviene, sempre con una missiva: «Non ho fatto trattative. E ritengo di non meritare accuse di manovre non trasparenti o di potere visto che a quel potere ho voluto rinunciare lasciando immediatamente il mio incarico. Certe parole mi feriscono oltremodo perché non corrispondono alla realtà e perché vengono da un persona che ho stimato sempre. Credo e spero che si tratti di amarezza».

E così il voto previsto per martedì si avvicina nella confusione più totale. Fonti dem raccontano che sia stato Delrio a proporre a entrambe di candidarsi (cosa ribadita da Madia) e che gli ex renziani avessero assicurato a Madia il loro sostegno: un appoggio solo tattico, poi ritirato dopo aver avuto rassicurazioni sulla nomina di Piero De Luca come vicecapogruppo vicario. Insomma, i soliti giochini di potere che hanno spinto Zingaretti alle dimissioni.

Lo show delle lettere è andato in scena mentre Letta era impegnato in una riunione via Zoom con i circoli dem di Firenze. A cui stava illustrando i capisaldi del nuovo corso, ribadendo la necessità di far «contare gli iscritti» e di evitare che «ogni corrente si faccia il suo partitino». E ricordando che «abbiamo avuto la percezione un mese fa che questa storia potesse finire. Ho lasciato tutto per poter dare una mano ed evitare che tutto finisse».

Letta si è detto impressionato dalla reazione dei circoli alla consultazione da lui proposta sui 20 punti di programma: «Si fanno assemblee ovunque e sono ovunque piene». Quanto alla faida della Camera, dal Nazareno fanno sapere che la vicenda deve essere risolta dal gruppo senza temere una «sana competizione».

Altra grana per il segretario sono le comunali a Roma. Venerdì sera a Otto e mezzo ha auspicato primarie di centrosinistra allargate anche a Calenda. Ma il leader di Azione tira il freno: «Ritengo le primarie difficili e inopportune in queste circostanze. Tenendo molto a non strappare ne discuterò comunque con Letta».

«Le primarie tendono a sparire magicamente quando c’è un nome che piace al Pd o quando emerge un possibile accordo con 5S. È già accaduto due volte da ottobre», attacca Calenda. «Stiamo perdendo tempo dando un grande vantaggio alla Raggi. Perdere altri tre mesi mi sembra folle». Nei prossimi giorni nuovo faccia a faccia con Letta che vuole tenere Calenda dentro l’alleanza anche nella Capitale.