Nel soggiorno di una casa bianca nei sobborghi residenziali di New York, Judd Apatow siede dietro alla macchina da presa con in mano un foglietto scritto fitto fitto. Davanti a lui gli attori alle prese con una scena in cui la protagonista presenta alla famiglia l’uomo con cui sta uscendo. Lei (Amy Schumer) è una single – il suo primo comandamento: non trascorrere la notte con l’uomo che hai appena scopato. Lui (Bill Hader) un timido medico sportivo che vorrebbe fare le cose sul serio. Il mood della scena è di assoluto imbarazzo. Una dei presenti chiede se stanno già pensando ai bambini. La sorella di lei inizia punzecchiarla su quando faceva pompini precoci. Apatow interrompe continuamente la scena, già molto buffa, imboccando agli attori battute annotate sul foglietto. A ogni suo intervento, il tutto prende una direzione improvvisata, nuova, tutta diversa, sempre più volgare e iperbolica. Ciak brevissimi, spesso interrotti dal cast che scoppia a ridere. Uno dopo l’altro. Il set (l’estate scorsa) era quello di Trainwreck, letteralmente disastro ferroviario e in Usa il termine e con cui ci si riferisce a una donna molto disastrata. «Quella sono io sei mesi fa», dice Schumer durante una pausa. «Il film è un’esagerazione della mia esperienza». Uscito il week end scorso nel sale americane (in Italia il 17 settembre con il titolo Un disastro di ragazza); a inizio agosto al festival di Locarno), il film è la quinta regia di Apatow e il lancio su grande schermo della bionda, pneumatica, e divertentissima Schumer, protagonista di uno show su Comedy Central e ultima aggiunta a un pool di geniali attrici/autrici comiche che includono, Amy Pohler, Tina Fey e Lena Dunham (un’altra scoperta di Apatow che è anche produttore di Girls). In parallelo all’uscita del film, la Film Society of Lincoln Center ha dedicato ad Apatow (produttore e regista) una grossa retrospettiva: I Found This Funny: The Comedy World of Judd Apatow e la Random House ha appena pubblicato Sick in the Head (malato di testa) un’affascinante raccolta di interviste che Apatow ha realizzato, a partire da quando era teen ager, ai maggiori comici americani. Abbiamo intervistato l’uomo più influente della commedia americana dell’ultimo decennio.

Perché, dopo Lena Dunham, Amy Schumer? 

Quello che mi ha attratto di Amy non sono stati tanti i suoi spettacoli di stand up comedy, quanto lo stile colloquiale, diretto. L’ho sentita per la prima volta in un’intervista sul programma radiofonico di Howard Stern. Mi ha attratto subito il modo i cui parlava di sé, della sua vita. È il tipo di persona che ti fa venire voglia di conoscere di più. E mi piaceva l’atteggiamento che aveva nei confronti della sua famiglia; il fatto che avessero attraversato momenti difficili ma che fosse comunque capace di parlare con humor e con affetto di suo padre…L’ho conosciuta due o tre anni fa e abbiamo iniziato a lavorare su una sceneggiatura. Una volta che l’ha finita, però, ho pensato che, per il suo primo film, sarebbe stato meglio se avesse scritto qualcosa di più personale. Quindi abbiamo messo da parte l’altro copione e ci siamo buttati su Trainwreck. Da quel momento le cose si sono mosse velocemente: siamo molto in sintonia su quello che ci fa ridere e soprattutto sul tono del film. In certi casi collaborazioni come questa sono molto dolorose. Qui è stato l’opposto.

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Hai mai considerato di far interpretare il ruolo a un’attrice più conosciuta?

Questa è una storia molto personale per Amy. Quindi doveva interpretarla lei. È un po’ come succede per le grandi canzoni: ascolti Kurt Cobain e hai l’impressione stia veramente condividendo con te qualcosa che gli è prezioso. Credo che la migliore commedia nasca da un rapporto analogamente personale con la materia.

Tu e Paul Feig, il suo co autore di Freeks and Geeks, avete fatto molto per far scoprire al pubblico il talento di attrici comiche contemporanee. Oltre a Dunham e Schumer, penso a Melissa McCarthy, Rose Byrne, Melissa Hart…

Mi piacciono le persone che hanno un punto di vista unico. Questo è un grande momento per la commedia americana, sia per gli uomini che per le donne. C’è un’intera generazione di attori cresciuta a forze di commedia e che sta cercando degli spazi. Anche per questo l’idea di collaborare con Amy è così eccitante. Il fatto che sia una donna è un plus, ma non è che questo sia un film che le donne capiranno di più degli uomini.

Come avete collaborato su Trainwreck? 

Generalmente, io cerco di fare delle prove molto in anticipo, quando siamo ancora nel processo di scrittura. Per vedere come si materializza quello che c’è sulla pagina e decidere cosa funziona e cosa no. Così arrivo sul set con una grande comprensione della materia. Durante quelle prove improvvisiamo molto, giochiamo con le scene. In questo caso, Amy rivedeva continuamente lo script alla luce di quanto succedeva nelle prove. Credo comunque di essere stato capace di non perdere il contatto con lo script originale e con ciò che mi ha trasmesso la prima volta che l’ho letto. Ci sono molte idee della prima stesura che sono rimaste. In realtà, per me è più facile quando dirigo qualcosa che ho anche scritto, perché ho la sicurezza di poter sempre buttare via tutto. Quando giro un mio copione, mi sveglio ogni mattina pronto a ricominciare da una pagina bianca. Qui Amy ha scritto una bellissima sceneggiatura e, come regista, devo rendere la sua visione. Il che tiene a bada la follia con cui reinvento continuamente me stesso.

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Come descriverebbe il suo cinema? 

Per me è fondamentale che una commedia abbia un tono e un margine di realtà coerenti. Non mi piace quando, da una scena di comicità sopra le righe di colpo si passa a un momento superserio. Lo stile va orchestrato con attenzione, perché un film ti permetta di sentire qualcosa, emotivamente parlando. Il mio process è lo stesso dagli inizi, sia per il cinema che per la televisione. Mi siedo alla scrivania e mi chiedo, per esempio, dove starebbe Gary Shandling in questa scena. Dove sta la verità? Quell’approccio in genere mi colloca nel framework giusto per scrivere. Quando un film è finito, prima dell’uscita, faccio moltissime preview. Molte più di altri registi. Così posso vedere le reazioni del pubblico. Le battute buone sopravvivono quelle non buone no.

È difficile tenere alto il livello shock della gross out comedy? 

Non necessariamente. Basta essere creativi. Seth Rogen e James Franco, in The Interview, per esempio, hanno decisamente esplorato nuovi territori del genere…. L’elemento della novità ha una parte importante della commedia: devi trovare il modo di sorprendere il pubblico per farlo ridere. E in quel senso, negli ultimi dieci anni abbiamo fatto molta strada. Scioccare, però non vuol dire necessariamente ricorrere alla volgarità. E non è che tra di noi parliamo di come scioccare il pubblico. È importante avere almeno qualche momento che fa venire giù la sala dalle risate, ma il film deve avere una sua integrità emotiva, e le gag devono rispettarla.

Da bambino amavi molto gli stand up comedian, e non pensavi al cinema….Oggi il nome Apatow è sinonimo della commedia hollywoodiana.

Il mio sogno era di frequentare tutti quelli che lavoravano su Saturday Night Live. Volevo uscire con Bill Murray, Harold Ramis…Solo che allora avevo dodici anni. Adesso abbiamo creato anche noi un nostro piccolo mondo della commedia, che si muove e cambia di film in film. Perché io sono nato come fan, quindi quando incontro qualcuno come Amy, Seth (Rogen), Jonah (Hill) o Lena (Dunham)…prima di tutto li vedo da fan. Voglio vederli al lavoro, dare loro l’opportunità di scoprire la propria personalità sullo schermo o, come nel caso di Amy, di cambiare medium, dalla tv a cinema. Se ti tratta di persone di talento, da quella collaborazione nasce altro. È molto bello vedere le cose che ognuno di noi decide di fare dopo, come si evolvono i percorsi e le passioni individuali.