La Costituzione italiana prescrive che sia la Repubblica a provvedere alla conservazione di opere d’arte, edifici storici e paesaggio. Il patrimonio è un bene pubblico, ha «interesse generale» e concorre, con scuola e università, alla rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale» che pregiudicano il «pieno sviluppo della persona». Non è dunque una collezione di beni sublimati e avulsi: è un’istituzione capacitante al pari delle altre istituzioni formative.

Malgrado l’impegnativo proposito dei costituenti, l’affanno dell’apparato pubblico di tutela, risultato di decenni e decenni di incuria politica alternata a tagli, è oggi palese. Le retoriche del «benefattore illuminato», care all’ex ministro Lorenzo Ornaghi e condivise dagli agit-prop del principio di sussidiarietà, tra questi l’attuale primo ministro Enrico Letta, nascondono pregiudizio ideologico e impreparazione specifica. La partecipazione dei privati alla difesa del patrimonio è tuttavia invocata da più parti e i «decisori» non esitano, come nel caso della Fondazione Grande Brera, a prendere iniziative legislative in tal senso. Che fare dunque?
Retoriche dell’innovazione
Contestiamo per prima cosa un luogo comune: il welfare italiano non è generoso né finanzia adeguatamente le politiche di sviluppo. La spesa pubblica pro capite in Italia è sensibilmente inferiore alla media delle maggiori nazioni europee, Francia e Germania in testa; e va in gran parte in previdenza. L’Italia è il paese europeo dove il welfare contribuisce meno alla redistribuzione intergenerazionale delle risorse.

Questi dati ci dicono qualcosa in tema di politica culturale? A mio parere sì. Parliamo molto di investimenti in «capitale umano» e al tempo stesso promuoviamo tagli lineari alla spesa sociale: non consideriamo che l’una cosa è incompatibile con l’altra. Dovremmo aumentare la spesa pubblica, non diminuirla; o quantomeno allocare le risorse in modo equo, così da conferire nuovo slancio a processi educativi, sostegno all’innovazione sociale e welfare di lungo termine.

Nei prossimi mesi occorrerà considerare con attenzione quanto, in seno al nuovo governo, i ministeri dello sviluppo economico e delle infrastrutture coopereranno effettivamente con il ministero per i beni culturali alla definizione di politiche virtuose e partecipate. L’auspicio è che i ministeri industriali non si propongano di annettersi tout court l’eredità culturale (in realtà abusandone) a fini di uno «sviluppo» rovinoso e pervicacemente settoriale. Per l’attuale ministro Massimo Bray «i beni culturali devono essere ricondotti alla sfera pubblica»: gli si prospetta un compito non facile. I grandi costruttori edili finanziano i partiti dell’attuale maggioranza, e la circostanza non è promettente. Dovremmo «essere convinti che ’investire sul mattone’ con il ritmo che stiamo seguendo è dissennato», osserva Salvatore Settis in Paesaggio, costituzione, cemento (2010). «Per farlo stiamo trascurando forme ben più produttive di investimento, chiudendoci nei parametri di una cultura arcaica che condanna l’economia del paese alla marginalità e allo stallo».

Il sistema italiano delle imprese conosce oggi una grave crisi competitiva, eccettuati settori specifici orientati all’export: la tentazione di fare del patrimonio un uso meno che responsabile è grande. Confindustria assomiglia sempre più a un sindacato di piccole e medie imprese attive in ambito terziario e protese all’inserimento in contesti protetti. Non sorprende che proprio dalla maggiore associazione italiana di imprese giungano sovente le voci più favorevoli a pratiche sbrigative e immediatamente profittevoli di «valorizzazione».

È ragionevole nutrire seri dubbi sulla competenza o affidabilità di chi, in nome dell’«innovazione», si è posto in più occasioni come risoluto avversario dei responsabili pubblici della tutela. Retoriche efficientistiche e aggressive campagne mediatiche pro-privatizzazione sembrano nascondere propositi decompetitivi e propensioni a confortevoli economie di rendita.
«Molti stranieri vogliono bagnarsi nei nostri mari, visitare le nostre città, mangiare e vestire italiano», ha assicurato il nuovo premier in occasione del suo recente discorso alla Camera, adottando il registro arcadico già caro a Mario Monti e alla responsabile per il patrimonio di Scelta civica, Ilaria Borletti Buitoni. «L’Italia e il made in Italy sono le nostre migliori ricchezze», ha concluso Letta. Non dubitiamo che il «lifestyle» possa costituire comunicazione e prodotto. Dubitiamo però che una simile autorappresentazione in chiave esotizzante o pittoresca, franca (anche se preterintenzionale) ammissione di subalternità culturale, debba sembrarci ovvia o neutra. Non lo è affatto: ha enormi implicazioni sociali, politiche, economiche su cui per lo più si tace.
In primo luogo. In che senso diciamo «patrimonio»? Da mesi, in Italia, dibattiamo su temi politico-culturali con argomenti (e dizionari) che sembrano in larga parte inadeguati e strumentali.

Eredità e indotto
«Arte e cultura rappresentano asset distintivi e competitivi fondamentali per il made in Italy», leggiamo nel breve testo di presentazione di un Master in economia della cultura promosso da 24Ore Business School. Intesa come istruzione, la «cultura» è «capitale umano»: torna utile al management aziendale e al sistema delle imprese nel suo complesso. Intesa come «eredità culturale» promuove invece «indotto»: è il punto di vista di chi non crede di dover distinguere tra grande industria culturale e piccola attività commerciale.

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Infine. Nelle scarne cartelle vergate dai «saggi» di Giorgio Napolitano troviamo un terzo argomento, stavolta tout court irrispettoso: la «cultura» (intesa adesso come «scuola pubblica» dell’obbligo) è utile alla comunità dei cittadini perché educa i piccoli a alimentarsi meglio, dunque riduce i costi della Sanità. Nient’altro: una versione stringata e aridamente contabile delle tesi di Gary Becker sull’incidenza economica di «preferenze» e consumi culturali. È troppo osservare che «patrimonio», «istruzione», «cultura» esigono considerazioni specifiche? La discussione dovrebbe inoltrarsi nei territori dell’innovazione cognitiva, dei diritti di libertà, della redistribuzione immateriale – e trattare in definitiva di politiche della cittadinanza attiva e di partecipazione democratica.

In secondo luogo. Una politica del turismo incentrata sul patrimonio può essere innovativa e qualificata e prosperare a ridosso della ricerca, risultando così responsabile e remunerativa. Non abbiamo dubbi in proposito. È questa anche l’opinione del governo? Attendiamo dichiarazioni circostanziate.

Posta in termini inequivoci e brutali, l’alternativa cui ci troviamo davanti è: cosa intendiamo offrire alle giovani generazioni, opportunità di impiego qualificato nella scuola, nelle università, nei laboratori di restauro e nei centri di ricerca, in un’industria creativa sfidante e adeguatamente dimensionata, che abbia ambizioni di competere con l’industria creativa americana; o il piccolo cabotaggio artigianal-commerciale di imprese con pochi o pochissimi dipendenti, occupate nella più modesta guidistica digitale, sprovviste di competenze strategiche su ciò che sia o possa essere industria culturale, incapaci di sopravvivere alla concorrenza sovraregionale?

Monumenti in affitto
Quali obiettivi economici e politico-culturali ci ripromettiamo dalla stretta correlazione tra politiche della tutela e promozione del turismo? Ricordiamo quanto ci ripromettevamo in un recente passato: multinazionali disposte a noleggiare Pompei (o gli Uffizi o Agrigento o Segesta) per lanciare i loro prodotti in una sera d’estate. È lecito diffidare di prospettive tanto aleatorie. Al netto delle esigenze di tutela materiale e immateriale, possiamo concedere qualcosa ai luoghi comuni consolatori e provinciali sull’«Italian Lifestyle»; e giungere persino a tollerare qualche parco a tema, certo non in prossimità delle aree di interesse storico e archeologico ma nelle «waste lands» postindustriali del paese: a patto però che un’avveduta e lungimirante politica del patrimonio sia destinata a finanziare istruzione, ricerca e professionalità a elevata specializzazione. Sarebbe dissennato dilapidare un’eredità culturale prodigiosa e millenaria, ridurla a gadget di sceicchi o oligarchi per poi avere in cambio, per migliaia e migliaia di giovani precari, nient’altro che abiti da hostess o costumi da gladiatori.