Rivelazione dell’ultimo Festival di Sanremo, la vicentina Madame (all’anagrafe Francesca Calearo) debutta con il suo primo omonimo album trainato da Voce, la straziante ballad urban, magnificamente prodotta da Dardust, che rappresenta l’epicentro della sua ricerca musicale. Rapper dall’inconfondibile flow biascicato e ritmicamente sconnesso, la diciannovenne esordisce così dopo i primi folgoranti singoli datati 2018 dove, con la baldanza e la voglia di emergere dei suoi sedici anni, ha sfornato piccole gemme come Sciccherie e 17. Brani forse acerbi musicalmente – e troppo derivativi di una trap convenzionale e modaiola – ma che hanno rivelato fin da subito una capacità di forgiare testi di rottura uniti alla libertà giocosa di esplorare i limiti delle strofe, sfondando tutte le convenzioni. E, non a caso, a Sanremo ha conquistato il premio Sergio Bardotti per il miglior testo.

ARRIVANO COSÌ le 16 tracce dell’album, uscito lo scorso marzo, sospeso fra suoni futuristici e beat old school, dove il canto emerge in tutta la sua potenza magmatica. Autrice sopraffina di liriche capaci di fotografare croce e delizia dell’adolescenza, Madame focalizza la sua ricerca di scrittura sul corpo come unico possibile tramite per l’autodeterminazione e la conoscenza di se. Brani come Nuda, Istinto e Clito sono introspezioni gender fluid violente e senza filtri («I miei ricci ti bagnano il culo/Ti bagno la tuta, mi bagnerò tutta/Ti stacco il seno come una verruca»), squarci di vita vissuta alternativamente al maschile e al femminile. Musicalmente si affida all’esperienza, tra gli altri, del già citato Dario Faini e di producers come Crookers – in Baby, uno degli apici del disco – e Bias che le assicurano un variopinto ventaglio di sonorità, lasciandola libera di eseguire i suoi voli pindarici senza gabbie o costrizioni.
Dal beat electro-pop, featuring Gaia, di Luna – in pieno stile Kylie Minogue – ai synth anni 80 del primo singolo Il mio amico dove duetta con il padre spirituale Fabri Fibra. Fino alle più moderne intuizioni hip-hop insieme a colleghi del calibro di Mace, Ernia e Rrkomi e alle strizzate d’occhio al pop-rock radiofonico in Babaganoush dove, miracolosamente, riesce a rendere digeribili perfino i Pinguini Tattici Nucleari. In tutte le canzoni, svetta, come un secondo corpo, l’autotune, usato non certo per correggere claudicanti intonazioni ma come vera e propria appendice dell’anima, svolazzando melodicamente fino a renderlo quasi caldo e umano. E negandogli, di conseguenza, quella connotazione robotica e sterile che ormai da tempo intasa le playlist.