Il Centre National de Recherche sur l’Environnement (Cnre) di Antananarivo ha recentemente dimostrato che in alcuni territori del Madagascar «una quantità importante di superficie a copertura forestale (60%) è stata convertita in zone agricole». Gli abitanti spesso utilizzano la pratica sur brûlis per poter coltivare: abbattendo e bruciando parti di vegetazione incolta è quindi possibile rendere il terreno più fertile. Secondo diverse fonti inoltre la popolazione malgascia sarebbe in forte crescita all’interno di alcune zone rurali, in cui vi è ricchezza di particolari risorse ambientali. «Si può visibilmente notare questa tendenza dall’aumento di certe abitudini», ci spiega Aldin, che vive alle porte del Parco Nazionale di Masoala: «Il numero di tetti in lamiera è aumentato rispetto al tradizionale uso dei rami di Ravenala», pianta simbolo del Paese. La migrazione verso aree ad alta biodiversità però nasce da lontano e ha a che fare con lo sfruttamento di materie prime rare richieste dai paesi occidentali, Cina e Thailandia. A partire dal colpo di stato del 2009 per qualche anno si è vissuto un vero e proprio periodo di sciacallaggio ed in particolare vi è stata un’ampia domanda di alcuni legni pregiati come ebano, palissandro e bois de rose di cui sono ricche le foreste pluviali e secche, così come l’oro, alcuni metalli e pietre preziose. La vaniglia presente al mondo, poi, viene prodotta per l’80% in Madagascar e sembra che i principali proventi, scaturiti dal commercio illegale del legno, siano stati reinvestiti in questa filiera.

IN TUTTO IL NORD EST DEL MADAGASCAR può capitare di imbattersi in posti di blocco che hanno il compito informale di verificare che non vi sia trasporto di vaniglia, se non previa autorizzazione. Diversi villaggi rurali per questo motivo si organizzano in tutta autonomia al controllo delle merci e, nel caso vi siano dei furti, di regolamento dei conti. Il recente trend demografico si è quindi alimentato a partire da uno sfruttamento settoriale del territorio che coinvolge tanto interessi internazionali quanto locali ma è andato incrociandosi, dopo anni di crisi governativa, con un nuovo comportamento sociale che punta alla tutela dell’ambiente e delle risorse. Ad ogni modo il periodo di crisi a cui si fa riferimento, che è costato molto alla natura selvaggia dell’isola, non è rimasto sottotraccia.

Diverse inchieste giornalistiche si sono concentrate nel far emergere episodi di corruzione e l’attenzione di molti osservatori si è intensificata. Alcune associazioni come l’Homme et l’Environnemente (Mate) hanno cercato di imporsi su territori sensibili al cambiamento, promuovendo attività di eco-turismo e ricerca scientifica. Celeste, referente e responsabile per la tutela di una piccola foresta nell’est del Madagascar, non di rado definisce come «ladri» coloro che hanno fatto scorta nella sua regione e garantisce che oggi il suo territorio è al sicuro. «Anche se il danno ormai è fatto», alcuni alberi impiegheranno secoli per ricrescere. A Maroantsetra, città nel cuore della foresta pluviale, invece, un piccolo allevatore ci spiega che «alcuni attivisti che hanno provato a criticare amministrazioni e denunciato traffici illegali – per proteggere l’ambiente – sono stati messi in carcere». I casi di diffamazione sono comuni per coloro che riferiscono di attività governative e il Codice di comunicazione, adottato a luglio 2016, vieta le critiche ai funzionari governativi o ai membri delle forze di sicurezza statali; spiega l’organizzazione irlandese Front Line Defenders.

TRA I PIÙ BERSAGLIATI generalmente vi sono le guide naturalistiche dei parchi nazionali come nel caso di Augustin Darovy, oggi rifugiato in Germania. Un paradosso rende tali figure vittime della loro stessa attività di monitoraggio. Normalmente questi attori convenzionati con l’organismo che gode dell’appalto sulla gestione delle aree protette (Madagascar National Parks) hanno il compito di redarre rapporti sullo stato di salute dell’ambiente. Tuttavia la cesura esistente tra istituzioni e il mondo delle organizzazioni non governative rende fragile l’autorità e l’autorevolezza di queste persone. «Le guide non superano i seicentomila ariary al mese», spiega una di queste, il che vuol dire poco più di centocinquanta euro di stipendio mensile. Spesso chi fa questo mestiere è costretto ad arrotondare svolgendo altri lavori, tra cui quelli agricoli. Il tenore di vita malgascio non prevede molti vizi, ma le possibilità per le famiglie rimangono limitate e il lavoro, più che l’istruzione, rimane il principale strumento per emanciparsi. Presso la direzione del Parco di Ankarafantsika ci spiegano infatti che alcuni accompagnatori «fuori dalla stagione turistica, si dedicano anche alla raccolta di riso» e muovendosi verso il Canal di Monzambico, per l’appunto, è possibile notare le più grandi risaie della regione, in cui gravitano migliaia di braccianti. Malgrado ciò il fabbisogno quotidiano per questo alimento, su tutta la popolazione, supera l’offerta che è in grado di generare l’intera isola africana. Per questo motivo non è raro trovare grossi sacchi di riso cinese nei mercati di Antananarivo o nei maggiori crocevia commerciali. Ed è così, infine, che nelle zone più umide e alluvionali gli spazi coperti da vegetazione spontanea si stringono a favore di grandi distese di spighe gialle.

IL PAESE È FATALMENTE PREDA delle proprie risorse e, con buona frequenza, non riesce a resistere alla tentazione di sacrificare la propria rigogliosa vegetazione e chi vi dimora in cambio di migliori confort quotidiani. Tuttavia la rabbia sociale cresce soprattutto verso l’alto perché in basso i confort desiderati, nonostante il duro lavoro, non arrivano mentre qualcuno nella capitale si fa uno spuntino con la “pregiata” carne di lemure. Il malcontento popolare degli ultimi mesi, foraggiato dallo sfruttamento di risorse umane e vegetali, è una delle cause dell’attuale crisi di governo e nuove elezioni sono previste per novembre.

* Sur Brûlis è anche il nome del progetto fotografico.