End of an Era è il sottotitolo della serie finale di Mad Men. «Una frase», ci dice a Los Angeles John Hamm, il protagonista della serie Abc, «che contiene una sensazione di ineffabile nostalgia. Non è questa in fondo l’essenza della pubblicità?» Parola di Don Draper. Come nelle buone campagne lo slogan è opportuno innanzitutto perché con i prossimi conclusivi episodi firmati da Matt Weiner finisce in un certo senso anche la prima generazione del rinascimento delle fiction tv, quella iniziata coi Sopranos alla cui scuola Weiner è stato apprendista prima di creare la serie che ha fatto la storia. E poi perché questa ottava stagione (la settima-bis se siete pignoli, da noi siamo molto indietro appena alla quarta passata da poco su Rai4, l’ultima è però già disponibile in modalità pay su Timtv) porta a termine l’arco di una narrativa che sin dal primo episodio era in fondo cronaca sia della nascita che del crepuscolo di un epoca. Il racconto dell’apoteosi e declino così inestricabilmente connessi, del secolo americano visti attraverso l’incurabile malessere spirituale del mago della pubblicità: Don Draper, e dei suoi colleghi, demiurghi dei consumi di una incipiente cultura di massa fondata – come lo stesso Draper – su una Grande Menzogna.
Una fiction, come afferma Weiner, sull’identità – del paese e dei personaggi – che ha avuto la fortuna del tempismo come ci dice anche January Jones, la glaciale, infelice Betty Draper: «Non so se è stata pura coincidenza ma le nostre storie avevano sovrapposizioni singolari col presente di questo paese, a partire dalle implicite somiglianze fra l’America di Kennedy e quella di Obama.». Una «origin story» della modernità globale inventata nel dopoguerra a Madison Avenue e una parabola fondativa del mercato intrisa di ingenuità e colpevolezza che si è fatta beffe del politically correct, con montagne di sigarette e fiumi di alcol e la volgarità di un maschilismo senza freni. Ma il vero choc è l’aver realizzato che poi non è cambiato molto: «È abbastanza ovvio – sottolinea ancora l’attrice – che c’è ancora tanta strada da fare per l’uguaglianza dei sessi e delle razze».

Anche per queste ragioni Mad Men ha avuto un impatto «culturale», l’influenza diffusa sul costume (analisi critica, satire dei Simpsons, bambole Barbie…una linea di abbigliamento commerciale) che giustifica la mostra che gli ha dedicato a New York il Museum of Moving Image. L’idea geniale di Weiner è stata di usare la pubblicità come paradigma del nostro presente. Una storia d’America attraverso i prodotti, l’hybris che nel secolo americano vi ha costruito attorno lo scintillante castello del consumo di massa.

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Sullo sfondo dell’accattivante scenografia, la vicenda del fragile testimonial Don Draper è allo stesso tempo didascalica e profonda. «Forse non prende sempre le decisioni migliori», dice John Hamm, «ma come faresti per un buon amico, speri sempre che si ravveda che trovi un pò di pace nella sua vita, la vita che per anni ha cercato di vendere agli altri. Che vi stia più o meno simpatico, l’importante è aver compiuto assieme a noi questo viaggio. Proprio come in un buon romanzo l’ultimo capitolo spesso è anche il più agrodolce».

Il mondo della pubblicità – al centro delle otto stagioni della serie: «È un simbolo del dominio culturale americano – sottolinea il creatore Matt Weiner – Un artificio che permette di riflettere la cultura. Ma più importante mi ha dato la possibilità di parlare dal punto di vista emotivo dei miei personaggi. Non mi interessava tanto entrare nel merito di quel mondo, ma avere l’opportunità di descrivere l’esperienza umana dei personaggi in quello sfondo». Una storia abbastanza universale… «Mi sembra chiaro che l’America di quel periodo ha ancora un grande impatto nell’immaginario popolare. Era appena stata vinta la seconda guerra mondiale, stavamo incoraggiando e finanziando lo sviluppo democratico in giro per il mondo, specialmente in Giappone e in Europa. L’epoca era intrisa di glamour e presunzione e sostanzialmente dell’idea di successo. Il successo a cui si poteva aspirare. Non è un caso che sia stata un tale modello nel mondo – perfino dittatori si sono plasmati sull’America del ventesimo secolo. Detto questo in gran parte era falso. È l’argomento di Mad Men». Le storie e i personaggi lanciano in qualche modo un messaggio politico: «Però non era certo questa l’intenzione, volevamo semplicemente mostrare le varie sfaccettature del bene e nel male. Sicuramente un ruolo lo abbiamo avuto nel riaprire un certo dibattito sul gender ad esempio».

Una scrittura originale per una serie che ha sempre evitato gli stereotipi di genere, aggirando l’effetto cattura audience…: «Non è stato semplice realizzare Mad Men – sottolinea Weiner – dopo aver scritto l’episodio pilota sono passati sette anni prima scrivere il secondo. Tanto ci volle per vendere l’idea. Nel frattempo ho lavorato quattro anni sui Sopranos. E il periodo passato fianco a fianco con David Chase (creatore dei Sopranos, ndr) e Terence Winter (produttore dei Sopranos e di Boardwalk Empire, ndr), è stato fondamentale per assorbire la loro idea di narrazione. Fino ad allora la regola in tv era stata ‘scrivi sempre per il minimo comune denominatore’, come se assaporare un buon dramma dipendesse dal quoziente di intelligenza. La condiscendenza per il pubblico di massa era la regola. David non lo ha mai creduto, amava mostrare le cose invece di spiegarle, voleva che ogni episodio venisse giudicato nel merito, come un mini-film. Una scuola impagabile».

Reiner è considerato tra i «padri fondatori» della nuova televisione… «Forse la novità è che alcuni di noi ora sono conosciuti al pubblico. Ma nella televisione gli scrittori erano e restano le figure fondamentali: Norman Lear lo era, Jim Brooks, Gary Marshall, Carl Reiner – tutti hanno cominciato come scrittori. E quelli che oggi chiamano «showrunner» sono sempre esistiti perché dovevano essere in grado di consegnare il materiale in orario ogni settimana, un ritmo pazzesco ma erano stati abituati con la radio. La generazione dopo ha prodotto David Milch e Steven Bochco, solo per dirne un paio, David Kelley. Erano Ioro i precursori di David Chase».

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Ora però si parla di rinascimento del piccolo schermo, attori e registi di cinema fanno a gara per partecipare a nuove produzioni: «Non sono tanto d’accordo con quest’idea della golden age. Se tu fai una lista dei trenta migliori programmi di tutti i tempi, per esempio, e non ci metti Ai Confini della Realtà , beh per quanto mi riguarda hai fatto una figuraccia (ride). È come ritrovare vecchi ritagli con critiche negative di Psycho o L’appartamento, capisci che sarà la storia a giudicare certe opinioni. Per quanto mi riguarda so solo che avrei fatto qualunque cosa per riuscire a trovare un pubblico. Non sono il primo né l’unico. Forse se nascesse oggi anche Charles Dickens scriverebbe per la tv, anzi ne sono convinto, aveva la stessa idea di storia e di pubblico.