Joséphine Baker è entrata ieri al Panthéon, americana di nascita diventata francese il 30 novembre 1937, artista di scena e eroina della Resistenza, madre di 12 figli adottati di tutte le origini, ha portato nel tempio laico dei grandi uomini di Francia, «un vento di fantasia e audacia», ha ricordato il presidente Macron, nel discorso di omaggio. Una cerimonia solenne e estremamente commovente, per la sesta donna a entrare al Panthéon.

Il Canto dei partigiani e le sue canzoni ormai iconiche, Me revoilà Paris, J’ai deux amours, hanno accompagnato il lento percorso verso il Panthéon del cenotafio dove non c’erano i resti – rimasti a Montecarlo per volontà della famiglia – ma quattro manciate di terra, dei luoghi della sua vita: il Missouri, dove è nata nel 1906, Parigi, che per lei era la libertà rispetto all’America segregazionista, la Dordogne, dove aveva fatto crescere i figli nel castello delle Milandes e Montecarlo, dove è sepolta vicino a Grace Kelly, che l’ha aiutata quando ha avuto difficoltà economiche.

Un percorso in 4 tappe: l’artista di music hall, la resistente, la militante antirazzista, che nel 1963 era accanto a Martin Luther King alla grande marcia di Washington, e la mamma della tribù «arcobaleno», che ha voluto provare al mondo che gli umani, di qualunque origine siano, possono vivere assieme e amarsi.

La Francia è in campagna elettorale, Macron, non ancora ufficialmente candidato, ha preso Joséphine Baker a simbolo dei valori universali, «libertà, leggerezza, gaiezza, bellezza» che l’artista aveva difeso. Il patriottismo come universalismo, con le identità che si arricchiscono reciprocamente. Joséphine Baker «non difendeva un colore della pelle», ma «un’emancipazione» nelle sue lotte contro le discriminazioni razziali, fatte sempre in nome dell’universale.

Anche l’ironia, che è riuscita a ribaltare i pregiudizi coloniali con le sue danze. Joséphine Baker come «incarnazione dello spirito francese», perché l’artista aveva deciso di essere francese senza dimenticare le origini americane: «l’universalismo, l’eguaglianza di tutti, prima dell’identità di ognuno».

Macron ha ripercorso la vita di Joséphine Baker, venuta a Parigi negli anni folli, poi diventata agente dei servizi segreti francesi durante la guerra, sotto-tenente dell’aeronautica, con l’intenzione di parlare ai cittadini di oggi. E anche di far dimenticare che non sempre nei quasi 5 anni all’Eliseo i valori universali sono stati rispettati (ieri, la Francia ha fatto sapere che si occuperà dei funerali dei 27 migranti annegati nella Manica).

Un discorso molto politico da parte di Macron. Una risposta, indiretta, alle prime mosse della campagna elettorale, che si inabissa nel rifiuto degli immigrati e nel rancore. Ieri, c’è stata la candidatura ufficiale del polemista televisivo, Eric Zemmour, già condannato due volte per incitazione all’odio razziale, che dopo un’esplosione nei sondaggi sta perdendo terreno: un video di una decina di minuti, con una scenografia vintage con sullo sfondo immagini di violenze sociali, per dire che la Francia sta morendo e che lui si presenta per «salvare il paese dal tragico destino che lo aspetta», minacciato dagli stranieri e dalla «grande sostituzione» di popolazione.

Ieri sera, c’è stato in tv l’ultimo dibattito dei Républicains prima della primaria interna di fine settimana. La campagna della destra è scivolata nella chiusura identitaria, in una rincorsa insensata alle tesi di Zemmour.