Se Marco Ferreri dovesse girare oggi un film a Parigi di sicuro non lo intitolerebbe «La grande Bouffe» ma molto più probabilmente «Le grand Bluff», ovvero il grande bluff, incredibilmente riuscito, del neo presidente francese Emmanuel Macron.

Con poche carte in mano (un sorriso telegenico, un’aria giovanile, buoni consiglieri) ha creato un nuovo partito, disintegrato il tradizionale panorama politico francese, conquistato la Presidenza della repubblica e ottenuto la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale.

Il successo è stato completo ma ora, al contrario di quanto avviene nelle partite di poker, non può alzarsi e portare a casa il bottino: deve mostrare ai francesi, più di metà dei quali piuttosto scettici nei suoi confronti, dei risultati. Se ciò che vuole fare è ciò che ha annunciato nel suo pomposo discorso a Versailles davanti alle camere riunite, o ciò che il suo primo ministro Edouard Philippe ha illustrato alla Camera l’altroieri, il suo successo sarà di breve durata.

A Versailles, Macron si è concentrato soprattutto sulla sua visione dell’apparato statale, che richiederebbe una riduzione del numero di parlamentari, uno stile di governo più efficiente, una divisione dei compiti fra presidente e primo ministro più chiara. Buone intenzioni, ma nulla che possa risolvere i problemi che i francesi sentono come più urgenti, in particolare la disoccupazione, che rimane sopra il 10%. Il nuovo presidente punta molto sulla riforma del mercato del lavoro e ha già chiesto al parlamento di approvare un’ampia legge delega. Cosa intenda fare è ovvio: più flessibilità, più precariato, più libertà di licenziare.

Nello stesso tempo, il viaggio a New York del ministro delle finanze Bruno Le Maire ha chiarito quella che dovrebbe essere una caratteristica fondamentale della politica economica francese nei prossimi cinque anni: rendere Parigi una nuova Londra, un centro finanziario di livello mondiale, godendo i frutti dell’uscita della Gran Bretagna dallUnine Europea, che comporterebbe per la City di Londra la perdita inevitabile del suo ruolo, trovandosi fuori dal mercato unico europeo.

Le Maire, da questo punto di vista, è stato molto chiaro: è la finanza il miglior amico del governo Macron, il settore su cui puntare, visto che non ci sono piani realistici per far tornare in attività le industrie scomparse o delocalizzate negli ultimi vent’anni. La riduzione delle imposte sulle società al 25% entro il 2022 è un elemento essenziale del suo appello ai banchieri di Wall Street, ma c’è di più: «Siamo pronti a prendere i provvedimenti necessari per rendere più attraente la Francia, sia in campo sociale che fiscale».

Edouard Philippe è stato ancora più ortodosso nel mostrare il volto conservatore del nuovo governo, drammatizzando il deficit di bilancio previsto per quest’anno al 3,2%, quindi leggermente al di sopra di quanto concesso dai parametri di Maastricht. Ha annunciato tagli duri alla spesa pubblica, a cui non dovrebbero sfuggire neppure i settori «intoccabili» come la difesa e il nucleare. L’ossessione per mostrarsi buoni allievi della Commission europea e dei severi guardiani tedeschi dell’ortodossia monetaria risale in realtà ai tempi di Hollande, quando Macron era un ascoltato consigliere del presidente socialista. L’illusione, allora come adesso, è quella di conquistarsi la benevolenza di Angela Merkel e rilanciare il famoso «direttorio» franco-tedesco in Europa.

Inutile dire che il direttorio, se mai è esistito, si fondava sulla debolezza di una Germania non ancora riunificata e timorosa di mostrarsi troppo assertiva in un continente che aveva devastato con le sue avventure belliche per ben due volte nell’arco di soli trent’anni. Dopo la caduta del muro di Berlino, nell’ormai lontano 1989, la Germania non ha affatto bisogno della Francia: ha assunto da sola una posizione economica, politica, e soprattutto ideologica, dominante all’interno dell’Unione Europea che nessun Macron, o Renzi, può minimamente scalfire, soprattutto dopo che gli inglesi hanno scelto la porta di uscita.

Insomma, Macron sembra un personaggio uscito dal Gattopardo ma forse neppure il genio di Tomasi di Lampedusa sarebbe riuscito a immaginare un giovane di 39 anni così abile e cinico nel «cambiare tutto per non cambiare nulla»: il nuovo presidente francese ha umiliato Marine Le Pen che sembrava avere il vento in poppa, disintegrato il partito socialista, spaccato la destra in vari tronconi, alcuni dei quali sono entrati nel suo governo, come il primo ministro Edouard Philippe, mentre altri hanno comunque votato la fiducia.

Tutto questo per fare quale politica? Un’austerità più dura di quelle precedenti, una subordinazione alla politica tedesca più completa, un neoliberismo più perfezionato di quello di Tony Blair. Congratulazioni, Emmanuel, ma i francesi quanto ci metteranno per accorgersene?