The Maciste Films of Italian Silent Cinema di Jacqueline Reich (Indiana University Press, Bloomington, 2015)

 

Fin dagli anni Ottanta Alberto Farassino e Tatti Sanguineti avevano individuato una peculiare forma di divismo maschile, tipica del cinema italiano dai tempi del muto, quella degli “uomini forti”, gli eroi muscolosi che si contrapponevano alle languide dive attaccate alle tende, come Francesca Bertini o Lyda Borelli. Jackie Reich nell’importante The Maciste Films of Italian Silent Cinema esamina in modo nuovo e approfondito questa figura di divo sui generis, che sta alla radice di un’ideologia del maschile, giocando un ruolo cruciale nella costruzione dell’italianità, dell’idea di nazione e di razza.

In questo testo voluminoso (400 pagine) e ampiamente illustrato, pubblicato dall’Indiana University Press, Reich, che per questa casa editrice cura la prestigiosa serie “New Directions in National Cinemas,” analizza la figura di Maciste, protagonista del più famoso film italiano muto, lo spettacolare Cabiria (Giovanni Pastrone, 1914) ambientato durante le guerre puniche. Noto per le elaborate didascalie scritte da D’Annunzio, il film era caratterizzato da imponenti scenografie, eleganti costumi e grandi scene di massa, ma soprattutto da un linguaggio cinematografico innovativo con i primi movimenti di macchina della storia del cinema, un uso di luce artificiale e naturale che precorreva i tempi, con spettacolari (per l’epoca) effetti speciali nell’eruzione del vulcano, o nel mostrare Annibale che attraversa le Alpi, oltre a un uso sofisticato della colorazione. Nel film, prodotto dalla casa torinese Itala, Maciste è uno schiavo numida, ovvero un africano di pelle scura, che assieme al suo padrone, Fulvio Axilla, un romano che fa controspionaggio a Cartagine, salva Cabiria, una fanciulla romana rapita dai perfidi cartaginesi, un attimo prima che venga sacrificata al dio Moloch, in un intreccio avventuroso non scevro da un certo umorismo. L’intreccio tipico del cinema storico coinvolgeva infatti un giovane innamorato di una schiava o di una donna prigioniera, una nutrice e/o uno schiavo fedele, un rivale scaltro e l’eroe muscoloso che pur essendo uno schiavo era portatore di una fede o di un ideale superiore (cristianità, impero). Il modello era Quo Vadis? (Enrico Guazzoni, 1913) che con l’uso della profondità di campo, ottima fotografia e scene spettacolari, con grandi masse di comparse, conquistò i mercato mondiali, imponendo il formato del lungometraggio, mentre in USA Griffith confezionava ancora film di due rulli per la Biograph. Prima di Maciste c’erano già stati quindi Ursus, che liberava la fanciulla cristiana legata alla schiena del toro in Quo Vadis?, e lo schiavo ribelle Spartacus.

Cabiria fu un grosso successo commerciale e di critica in tutto il mondo; interpretato da uno scaricatore del porto di Genova, Bartolomeo Pagano, e diventato da subito immensamente popolare, il personaggio di Maciste venne ripreso tra il 1915 e il 1926, in una ventina di film avventurosi (alcuni girati in Germania e altri co-prodotti dagli americani) e trasformato in un uomo d’azione moderno, bianco e nazionalista, un eroe del popolo del quale Mussolini, che fisicamente gli assomiglia, ricalca in seguito pose (come le braccia conserte) e l’espressione col mento protruso. “Maciste collegava efficacemente il passato e il presente della nazione – scrive la Reich, – e in una peculiare convergenza tra la politica italiana e intrattenimento, la sua fama anticipò quella di Mussolini.” Infatti il cinema –l’arte nazionale per eccellenza –si intreccia fittamente con la politica: il fascismo stesso prese alcuni dei propri simboli dal cinema storico, come i fasci littori, l’iconografia e i riti dell’impero romano, saluto incluso, ma assorbì anche il disprezzo per istituzioni “inefficaci” come il senato e il favore piuttosto per i tribuni della plebe. Il cinema storico italiano si sviluppò a ridosso della guerra di Libia; e qui sta il punto: è proprio durante le imprese coloniali italiane, in particolare della fatidica conquista di quella Libia che ancor oggi tormenta i nostri sogni, che si è cominciato ad elaborare l’immaginario nazionale (visto che “l’Italia era fatta,” ma gli Italiani restavano e restano da fare). L’idea di nazione, cui partecipa nientemeno che il vate D’Annunzio, cresce assieme a questo ibrido razziale, di un Maciste schiavo di Roma, la cui negritudine appena abbozzata viene rinnegata nei film successivi, e con essa rimosse colpe e contraddizioni legate al colonialismo italiano. Il nome Maciste fu inventato da D’Annunzio stesso; il fatto che fosse uno schiavo africano fu deciso invece da Pastrone, che lo definisce “mulatto,” forse riferendosi alle problematiche razziali suscitate dalla colonizzazione della Libia o ispirato dal colore della pelle degli eroi salgariani cui rimanda nell’azione del film.

In una fitta rete di collegamenti culturali, Reich cita in proposito il lavoro di George Mosse che metteva in relazione il nazionalismo con la mascolinità e in particolare il mito della forza fisica e del corpo ben addestrato con la nascita degli eserciti professionali, associando il corpo virile al valore borghese della moderazione e del controllo sessuale; insomma, mens sana in corpore sano. L’esercizio fisico combinava competizione, esibizione e performance come nel caso di ginnasti e body builders, e si prestava quindi a una spettacolarizzazione filmica, non senza valenze culturali e ideologiche, come confermano il ruolo di D’Annunzio, col suo superomismo e la sua cura ossessiva del corpo, nella creazione di Maciste, ma anche l’immagine di Mussolini che fece della virilità e della forza muscolare esibita nei cinegiornali, elementi essenziali della sua iconografia. D’altro canto l’affermazione della mascolinità coincide non a caso col momento in cui le donne entravano nel mondo del lavoro e i ruoli di genere si facevano più problematici.

Reich collega inoltre la nascita di questo eroe muscolare alla passione per l’educazione fisica che percorre il mondo a fine Ottocento, che nel caso dell’Italia, è tesa a mascolinizzare il “popolo femmina,” ovvero la passiva popolazione del Mezzogiorno, cui i lombrosiani Sergi e Niceforo attribuivano sangue africano. Razza e nazione si intrecciano in modo contorto nel pregiudizio antimeridionalista – un altro grande rimosso della cultura nazionale. In pieno positivismo nazionalista gli italiani vengono divisi da una pseudoscienza razzista in africani e ariani, ma facenti parte entrambi di una stirpe peculiare, “mediterranea,” che affronta le guerre coloniali prima e il conflitto mondiale poi con questo stigma razziale da correggere, per cui “l’uomo forte” anche in senso fisico, è una necessità ideologica per non confondere la propria immagine con quella dei popoli “inferiori” di un’Africa brutalizzata. Mentre gli studiosi di cultura italiana negli Stati Uniti hanno dedicato in questi anni grande attenzione alla questione della razza e del genere, al colonialismo e all’emigrazione, l’assenza o quasi di riflessione su questi temi in Italia produce non solo una storiografia spesso provinciale e di scarso impatto interpretativo, che per l’appunto non spiega la fragilità dell’identità di nazione, le differenze Nord/Sud, un maschilismo ben più radicato di quanto non si voglia ammettere, e un inconfessato razzismo, che non si identifica solo nel colore ma genericamente con la diversità. Ma ciò che non si studia a scuola, ciò che non si elabora a livello di cultura popolare, torna come un riflusso gastrointestinale, vomitando un pericoloso fiele ideologico che distrugge in primis l’organismo stesso che lo produce.

Dopo il successo di Cabiria Maciste divenne una figura autonoma, in pellicole prodotte anche durante la grave crisi che in pratica affossò l’industria cinematografica italiana negli anni Venti, con una capatina in Germania per tre film e poi una ripresa italiana con Pittaluga, con il celebre Maciste all’Inferno, che era il film cult di Fellini. “Utilizzando sia le ricerche precedenti che nuove fonti d’archivio, questo studio sostiene che Maciste e il suo corpo muscoloso giocarono un ruolo cruciale nel racconto che il cinema italiano fece dell’identità di una nazione unificata prima, durante e dopo la prima guerra mondiale per un pubblico nazionale e internazionale” spiega Reich nell’introduzione, sottolineando come oltre a diventare una figura così popolare da essere proverbiale, Maciste fosse famoso anche all’estero.

Il personaggio del Maciste post-Cabiria abbandona l’antica Roma per l’Italia coeva e l’incarnato scuro per una pura razza ariana, trasformandosi da schiavo di Roma a cittadino italiano, borghese in doppiopetto, impegnato in diverse funzioni: Maciste alpino o Maciste eroe seriale, detective, uomo d’azione, domatore, imperatore, ma sempre eroe generoso. Rimane costante anche l’immagine del corpo muscoloso, che apparteneva a un immaginario molto radicato, dalla statuaria classica all’arte del Rinascimento e al classicismo del secolo dei lumi, fino alla moda del nudo maschile della prima fotografia o delle prime immagini in movimento (Marais, Muybridge). I film di Maciste non erano frettolose opere seriali, ma veri e propri lungometraggi, costosi e ricchi di effetti speciali (come nel caso di Maciste all’Inferno, o per la ricorrente presenza di catastrofi naturali che richiedevano il suo intervento salvifico) e con scenografie per nulla povere; Pagano fu del resto la star maschile più pagata del cinema italiano muto.

I temi del nazionalismo, del corpo e della mascolinità non si esprimono dunque nel cinema italiano muto attraverso l’epica, come nel cinema americano, ma piuttosto nei film di Maciste, venati di ironia, che fondevano alcuni generi delle origini come il seriale di inseguimento, il comico, il film storico e il detective, avvalendosi di una ambientazione moderna, sia urbana che rurale. Non era quindi un cinema provinciale o passatista come quello delle dive, ma un prodotto popolare in diretta competizione col cinema americano, e in particolare con i film acrobatici e ironici di Douglas Fairbanks, un modello di serialità che attraverso Tarzan ed Ercole arriva fino agli eroi della Dc Comics e della Marvel.

Basandosi su accurate ricerche d’archivio, sia sui documenti che con la visione dei film, e su studi di genere e culturali, Reich non si muove solo al livello macro dell’interpretazione storica, ma racconta anche il dettaglio del product placement nei film di Maciste delle auto Diatto, la casa concorrente della FIAT a Torino, dove i film di Maciste vennero prodotti, documentando anche a livello industriale i rapporti tra due nascenti industrie della modernità, cinema e automobile, nella città sabauda. Non va dimenticato infatti il dettaglio per nulla secondario che il cinema muto italiano era all’epoca, assieme a quello francese, il cinema più popolare nel mondo e il più avanzato, con le prime forme divistiche e un racconto del cinema storico che si indirizza al pubblico sia borghese sia popolare, creando un linguaggio che in un paese di analfabeti diventava una sorta di sussidiario nazionale.

La comparazione implicita nel libro è quindi tra un divismo maschile, fondato sull’affermazione dell’uomo mediterraneo nella sfera pubblica (mentre il mondo delle donne vive nel privato); la bellezza rimane attributo del divismo femminile mentre degli attori uomini si parla di rado in termini di bellezza. Secondo Reich, le dive facevano parte di uno spazio etereo, “ultraterreno” come il termine stesso di “diva”, dea, suggeriva, laddove gli “uomini forti” erano calati nella realtà terrena della vita quotidiana, con una buona dose di realismo iconografico. Rispetto ad altri film comici o seriali i film di Maciste avevano un arco narrativo più ampio e un montaggio più veloce, animato dai movimenti di macchina, rispetto ai primi piani e ai tempi solenni del diva-film, con una fusione tra attore e personaggio che diventa tipica del seriale italiano, fino agli spaghetti western. Il genere degli uomini forti usa topoi del detective, del comico e dell’avventura, nei quali l’uomo forte non uccide il nemico ma lo doma e lo consegna alle autorità; le didascalie possono essere ironiche e prevalgono buonsenso e buon cuore, il che valorizza il corpo sullo spirito.

La serie sia avvia con un primo e precoce spin off, intitolato semplicemente Maciste, diretto da Vincenzo Denizot e Romano Luigi Borgnetto, nel 1915. La vicenda muove dal suo lavoro di attore cinematografico: una fanciulla in pericolo infatti si rifugia in un cinema dove si proietta Cabiria e nel vedere le gesta eroiche di Maciste, scrive a Maciste/Pagano alla Itala, per chiedergli aiuto; quindi vediamo Maciste impegnato su un set e poi per le vie di Torino. Questo Maciste non è più uno schiavo ma un borghese di pelle bianchissima, che vive nella moderna Torino, ben lontano non solo dall’Africa ma anche dal Meridione; mostrandolo mentre si tinge la faccia di nero, si rivela anzi come la sua negritudine fosse solo un mascheramento. Quando il nazionalismo si intensifica, allo scoppio della prima guerra mondiale, Maciste viene perciò “sbiancato”; da africano dunque diventa un prototipo di italianità, in un cinema che abbandona i toni alti dello storicismo di Cabiria per identificarsi con la generosità e la bonomia del “gigante gentile” Maciste, e con la Torino –il Nord – delle automobili e del cinema.

Nello scrivere questo impegnativo volume, Reich ha lavorato a stretto contatto col museo del cinema di Torino in un’interazione scientifica evidenziata da un’appendice filologica sul restauro dei film di Maciste a cura di Claudia Gianetto e Stella Dagna, del museo stesso.

Da notare infine che Jackie Reich è autrice anche di un interessante libro su Mastroianni (Beyond the Latin Lover: Mastroianni, Masculinity, Italian Cinema) co-curatrice di un’importante antologia sul cinema del fascismo, Reviewing Fascism: Italian Cinema, 1922-1943 e, assieme a Catherine O’Rawe, è co-autrice del recentissimo Divi (Roma, Donzelli, 2016), che riprende, in traduzione italiana, il tema della mascolinità e del tipo nazionale, ripercorrendo le carriere di popolari attori italiani, a cominciare, naturalmente da Maciste.