Nel 1577 Francis Drake salpava da Plymouth per circumnavigare la terra. Tornò dopo tre anni, guadagnandosi il titolo di primo capitano inglese ad aver eguagliato il primato di Magellano. Il secondo sembra essere stato Puck, il folletto malandrino del Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare: «in tre quarti d’un’ora, ti stendo a volo un nastro tutt’intorno al globo». È vero, siamo nel bosco delle fate e degli elfi alati, e per di più a teatro, ma Puck ne sa abbastanza di ciò che accade nel mondo di fuori e nelle menti degli spettatori, al punto che osa di più di Drake: con il suo nastro egli il globo lo misura e se ne impossessa per la gloria presente e futura dell’Inghilterra. Shakespeare fa propaganda e celebra il conio di una medaglia d’argento piccolissima e sottilissima (un miracolo dell’incisione), con cui la regina Elisabetta nel 1590 volle ricordare il successo di Drake: sulle due facce sono incisi i due emisferi. Le molte terre già pretestuosamente inglesi (si includeva la California!) erano ben segnalate, così che al popolo fosse chiaro dove miravano le velleità della nazione.
La medaglia di Drake è il primo dei venti oggetti analizzati da Neil MacGregor, ex curatore della National Gallery di Londra e del British Museum, in Il mondo inquieto di Shakespeare (traduzione di Carlotta Fonzi, Adelphi, pp. 315, euro 22,00), che segue il fortunato La storia del mondo in 100 oggetti, uno studio di microstoria in cui si scuote il silenzio degli oggetti (preziosi, rari o demotici), li si fa parlare, perché raccontino qualcosa del milieu in cui furono creati. MacGregor ci riprova ora con Shakespeare, sostenuto da un apparato iconografico di eccellenza: un solo corpo di ‘accessori’, assemblato da fonti sparse e convergenti sulla spettacolarizzazione di un’epoca in mutamento che, sotto lo scettro monocentrico di Elisabetta, nascondeva mille risvolti conflittuali. Lo scopo, sostiene MacGregor, è «di metterci subito in contatto con una persona o un luogo specifici» per «un dialogo a tre voci fra gli oggetti in sé, le persone che li usavano o li guardavano e le parole del drammaturgo».
È ciò che invita a fare un elegante spadino perduto sulla sponda del Tamigi da un gentiluomo sorpreso in una rissa del Southbank, dove, in un teatro, non sarà stato difficile immedesimarsi nel fatale duello veronese di Romeo e Giulietta, in cui Shakespeare coglie il crescente contrasto, nelle strade di Londra, fra la scuola inglese di scherma, esercitata da Mercuzio, e la nuova scuola italiana dello spadino scelta da Tebaldo: «Si batte a regola di contrappunto come si canta in un corale, rispettando tempo, misura e intervallo». Tebaldo è un giovanotto alla moda, e alla moda straniera, poco gradita al gusto nazionalista della platea che, nella sfida fra due arti, avrà parteggiato per lo sfortunato Mercuzio.
In fatto di moda, l’Italia a Londra regnava. Un’affusolata forchetta di ferro a due rebbi, con incise le inziali del proprietario, rimanda a persona di riguardo, perché in Inghilterra, diversamente da Venezia, dove quella forchetta sarà stata prodotta per clienti raffinati, si mangiava ancora con le mani. È emersa dal curioso debris rinvenuto sulle fondamenta del Rose Theatre negli gli scavi condotti nel 1989. Durante le lunghe matinée, infatti, a teatro i londinesi mangiavano, sguaiatamente nell’area centrale (il pit), dove per un penny si accalcavano spettatori di basso rango, ai quali si deve il lascito incrostato dei loro rifiuti (settecento reperti ora al Museo di Londra): gusci di noci e valve di molluschi, uva, fichi, bacche di sambuco, cibo per poveri, «scadente», se comparato alle prelibate patate (allora esotiche), i confetti da «sbaciucchi», e gli eringi (un afrodisiaco), di Falstaff, o al probabile marzapane del gentiluomo proprietario della forchetta.
Si fa recupero di cultura materiale per accostarsi alla vita quotidiana e politica del pubblico elisabettiano e ricongiungere l’argine che, in apparenza, separava teatro e città. Ma non solo. A MacGregor preme anche dare voce all’anima del tempo, agitata da ansie che sulla scena non si osava esplicitare: il tabù (per legge) della successione a Elisabetta (assieme alla celebrazione nazionalistica, le lotte dinastiche dei drammi storici ne sono un’espressione indiretta), la questione irlandese, i conflitti religiosi, i complotti, la peste (che in genere non lascia tracce) e altro. In questi casi, scrive MacGregor, «gli oggetti arrivano là dove si arena la critica testuale».
Se un calice di Murano, ora al British Museum, può raccontarci molto dei traffici della Venezia mercantile di Shakespeare, una coppa, come quella avvelenata del finale di Amleto, era capace di evocare sia i rischi impliciti in un rito conviviale sia i fantasmi dei padri cattolici. Nella chiesa della SS. Trinità di Stratford, dove Shakespeare fu battezzato e sepolto, è conservato un calice d’argento per la comunione. Con la sua sobrietà estetica, esso ricordava ai fedeli la fine del cattolicesimo e l’inizio di una liturgia riformata, secondo la quale tutti – e non il solo sacerdote – dovevano partecipare al sacrificio, bevendo comunitariamente da quella coppa. In realtà, la nuova pratica sanciva anche un atto politico: era dichiarazione di appartenenza al protestantesimo e di fedeltà alla regina. Non farlo implicava gravi conseguenze. Lo ricorda la reliquia dell’occhio di Edward Oldcorne, un cattolico martirizzato con rara crudeltà davanti a un pubblico che, disgustato o incantato, conosceva i pericoli (o le speranze dei recusanti) serpeggianti in una nazione divisa dalla religione. Al pari, un venditore ambulante con il suo baule di mercanzie – un qualsiasi Autolico (un imbroglione) del Racconto d’inverno – poteva rivelarsi sospetto: una spia, un attentatore alla vita di Elisabetta, un sovvertitore dell’ordine protestante. Il baule che MacGregor ci mostra, ritrovato (murato) in una casa del Lancashire, proveniva dalla Francia e conteneva tutto il corredo di paramenti per un prete della Chiesa di Roma. Il terrorismo allora, in Inghilterra, era cattolico.
Le streghe, invece, o almeno le più cattive, erano scozzesi. Ne sapeva qualcosa Giacomo VI di Scozia (poi Giacomo I d’Inghilterra), sorpreso sulla rotta della Danimarca da tempeste così violente da convincersi che erano opera di streghe malefiche. Verso la fine del Cinquecento un modellino di nave (65 cm.) fu messo in mostra a Leigh (da dove era salpato Giacomo): è un ex voto, testimoniante in realtà una superstizione diffusa e condannata per eresia. Nella Scozia del Macbeth, sono tre streghe a innestare nel dramma un caos maligno, e nel loro calderone (dove già ribolle la futura tragedia), tra altre frattaglie, c’è «il ditone d’un pilota / Naufragato / Alla sua rimpatriata».
Per fortuna la Cerva d’oro di Drake non era una nave stregata e nel suo giro del globo non ebbe incidenti. Al suo rimpatrio, l’Inghilterra diventava «globale», proprio come il teatro diventava globale (un anfiteatro romano), quando, nel 1599, il Globe di Shakespeare (a forma di «O», si dice nell’Enrico V), apriva per la prima volta i battenti. Il mappamondo, prodotto in Inghilterra a partire dal 1592, diviene emblema della Regina nei suoi ritratti ufficiali. Come pure di una servetta, ignara imitatrice – anche con il suo didietro – della gloria inglese. Così nella Commedia degli errori: «È un mappamondo da poterci leggere tutti gli Stati e i Paesi. / E dove sarebbe poniamo, l’Irlanda? / Eh perbacco, padrone: sulle sue chiappe. L’ho riconosciuta per certi pantani. / E la Scozia? / In certe nocchie secche come sassi alle palme delle mani. / E l’America? Le Indie? / Ah padron mio, sul naso: tutto infiorettato di rubini, carbonchi, zaffiri; che offrivano la loro splendida ricchezza al fiato caldo della Spagna. / E i Paesi Bassi? / Eh padrone, tanto a sud non mi sono avventurato».