«Il presente tentativo estetico è una provocazione alla scuola realista, un programma totale di discredito della verità o della realtà di ciò che il romanzo racconta, ed esclusiva subordinazione alla verità dell’Arte, intrinseca, incondizionata, auto-autenticata. La sfida che lancio alla verosimiglianza, all’intruso deforme dell’Arte, l’Autenticità, culmina nell’uso delle incongruenze, al punto di dimenticare l’identità dei personaggi, la loro continuità, l’ordinamento temporale, gli effetti prima delle cause…».

Metà del volume di Macedonio Fernández, Il museo del romanzo della Eterna (Primo romanzo bello) (tradotto per la prima volta dal Melangolo nel ’92, ora Castelvecchi, pp, 308, € 22,00) curato da Fabio Rodríguez Amaya, che ha dovuto affrontare non poche difficoltà legate al carattere sperimentale della prosa, con un risultato ottimo anche quando riflette le sfumature del così caratteristico uso del castigliano porteño – è fatto di prologhi come questo, ma in realtà tutti i suoi scritti sono costituiti da approssimazioni e frammenti che si muovono intorno a un oggetto non riconosciuto in quanto tale.

Anche il termine romanzo presente nel titolo, dunque, non va preso alla lettera: a Macedonio non interessava pubblicare, il suo era il mestiere dell’annotare pensieri in quaderni e minuscoli pezzi di carta (poi laboriosamente raccolti e ordinati dal figlio Adolfo de Obieta). Eppure, dirà il lettore, la parola romanzo compare abbondantemente in questo libro: vero, ma sempre come un concetto da uccidere, a bastonate e senza pietà, soprattutto se abbinato all’aggettivo realista.

Progetto: demolire l’esistente
La dichiarazione di principio circa il rapporto di Macedonio Fernández con il mondo appare in uno dei primi prologhi: «L’Universo o realtà e io nascemmo il primo giorno di giugno del 1874 ed è semplice aggiungere che ambedue le nascite avvennero qui vicino in una città di Buenos Aires e il non nascere non ha nulla di personale, è semplicemente non avere mondo». Come a chiarire dall’inizio che il soggetto non ha importanza, che il tempo e lo spazio non esistono. Tutto è uno scorrere incessante di esistenza, «il tempo puro». Su queste basi Macedonio lavora al proprio progetto letterario, costruito nell’humus culturale dell’avanguardia di inizio Novecento con la ferma intenzione di demolire l’intero edificio preesistente.

Uno che conosceva dettagli di questa operazione semisegreta di boicottaggio era l’amico Jorge Luis Borges, che considerava Macedonio il suo maestro: «Io in quegli anni lo imitai, fino alla trascrizione, fino al devoto e appassionato plagio. Io lo sentivo, Macedonio è la metafisica, è la letteratura».

In uno dei prologhi, Macedonio afferma che il disordine nel suo libro è quello di tutte le vite e di tutte le opere apparentemente ordinate. Tentare di mettere ordine nel caos dell’esistenza mediante un artificio letterario, come lo stato che cerca di uniformare gli individui, equivarrebbe a una violenza inaccettabile, oltre che a una contraddizione interna del concetto stesso di realismo. Ma se il «Romanzo bello», cioè questo suo caotico Museo, rispecchia, invece, il caos dell’universo, allora Macedonio cade nel realismo andando contro il suo principio basilare. Non che a lui importi contraddirsi, naturalmente. Neanche se rischia di essere confuso con il realismo magico di garcíamarquiana memoria o con il romanzo fantastico così amato da Borges, anche perché in Macedonio non si dà separazione fra realità e fantasia, dissolte entrambe nella pura soggettività. Concludendo la lunga serie dei prolegomeni, dopo 147 pagine, l’autore (o il narratore, ma chi è il narratore?) si domanda: «Questi sono stati i prologhi? E questo sarà il Romanzo? Che il lettore possa aggirarsi in questa pagina prima di leggere nella sua assai degna indecisione e gravità». Dunque, si passa al capitolo I: «Sveglia. Inizia il tempo del Romanzo. Si muove».

Protagonista è il duetto formato da L’Eterna, cioè Elena, giovane moglie morta di Macedonio e sua immortale ispiratrice, e il Presidente, a capo di un progetto surrealista di riorganizzazione cartografica e conquista militare della città di Buenos Aires, che fa pensare alle invenzioni di uno scrittore porteño coevo, Roberto Arlt. Accanto a loro, altri personaggi chiamati Dolce-Persona, Forsegenio o Inesistente cavaliere; ma a legarli non c’è una trama, nemmeno un accenno a una continuità narrativa. Compaiono e scompaiono in sequenze che a più di un critico sono sembrate anticipare il postmoderno zapping televisivo. Solo che ogni scena illuminata dal genio di Macedonio sembra piuttosto una discesa, o un tentativo di discesa, a profondità filosofiche e letterarie che ha pochi paragoni nel mondo latinoamericano, senza che venga mai usato un linguaggio da iniziati. Maestro del paradosso e dello scherzo letterario, Macedonio vede se stesso come una sfida vivente: «Non c’è cosa peggiore del raffazzonare, se non la facile perfezione della solennità. Questo sarà un libro di eminente raffazzonatura, ovvero della massima scortesia con un lettore, salvo un’altra ancora più grande, così frequente: quella del libro vuoto e perfetto».

Un giudice, nessuna condanna
In Argentina tutti sembrano conoscere Macedonio Fernández, però c’è il sospetto che in pochi l’abbiano letto. La sua vita fu quantomeno eccentrica: amico del padre di Borges e animatore di circoli anarchici che tentarono l’avventura di una comunità libertaria nella selva di Misiones, Macedonio era anche un giurista e esercitò per qualche tempo il mestiere di giudice nelle province della pampa argentina, dove si vantò di non aver mai condannato nessuno. Dopo la morte della moglie, visse recluso in squallide stanze di Buenos Aires, dedito al lavoro della vita: compilare decine dei suoi quaderni di pensieri, che questo volume propone solo in parte, pubblicati postumi dal figlio nel 1967.

Macedonio era stato, infatti, infaticabile nella scrittura, oltre che nell’arte della conversazione, e Borges confessava di avere imparato da lui tutto sulla vita e sull’arte. Di particolare importanza, nella produzione di Macedonio, l’acido umorismo porteño, ovvero dell’abitante di Buenos Aires, pessimista per natura e portato all’autoderisione sistematica. È una tradizione, questa, in cui Macedonio si inserisce comodamente travolgendone la forma, sia nei suoi scritti sia nel cerimoniale delle tertulias nei vari caffè dove si riuniva con i giovani discepoli, tra i quali, oltre a Borges, Leopoldo Marechal, convegni nei quali cominciava a nascere l’idea di un’opera che fosse il frutto di un lavoro collettivo e segreto, il libro del futuro.

Morto nel 1952, Macedonio troverà effettivamente il suo futuro in quelli che furono suoi veri e propri esegeti, scrittori della seconda metà del Novecento come Julio Cortázar e specialmente Ricardo Piglia, che avrebbe dedicato a questo suo illustre antenato letterario molti articoli, un documentario e almeno un libro, La città assente, a lui si ispirato, e che una volta disse «talora penso che Macedonio Fernández sia la letteratura argentina».