Folle di rifugiati siriani tra le montagne macedoni di Kouf e Pajak. Campi saturi di pioggia, notti fredde e umide trascorse all’aperto. Niente riparo. Poco cibo e poca acqua. Dietro il filo spinato, entrate razionate dalla polizia macedone. Granate e lacrimogeni. È il quadro alla irriconoscibile stazione ferroviaria di Gevgelija, a due chilometri dal confine greco-macedone.

Da giugno almeno 44.000 migranti, soprattutto siriani, sono entrati in Macedonia. I dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, in questa settimana, hanno contato 1.500-2.000 ingressi ogni giorno. Il primo obiettivo è salire nel treno che da Gevgelija porta a Skopje o Tabanovtse, nel nord della Macedonia. Punto di contatto con le città serbe e quindi con l’Ungheria. E poi proseguire per la Black Road attraverso l’Europa.

Raggiungere l’Ungheria – nonostante l’accoglienza dall’incalzante controllo di 2.100 poliziotti, dispiegati sui 175 chilometri di confine con la Serbia – significa entrare nei Paesi della zona Schengen. Dunque, viaggiare in tutta l’Unione europea senza essere bloccati ai valichi di frontiera e avere la possibilità di chiedere asilo politico.
Dichiarato lo stato di emergenza, le autorità, per giorni, hanno lasciato migliaia di rifugiati nella polverosa no man’s land tra Macedonia e Grecia. Non sono immigrati. Non sono qui per ragioni economiche. Sono rifugiati.

Robar, Amira, 23 anni e incinta del secondo figlio, e il piccolo Elyas, di soli due anni, hanno camminato a piedi da al-Hasakah, nel nord-est della Siria, a al-Derbasya, al confine con la Turchia. Robar nella sua città, provata dall’assalto durato mesi da parte dello Stato Islamico, ha incontrato il suo «contatto». Rasheed, un trafficante siriano, che ha permesso loro di attraversare il confine turco-siriano, nell’area di al-Qamishli. Robar dice: «I trafficanti conoscono le vie. Ogni villaggio siriano ha la sua via per accedere alla Turchia. Noi abbiamo camminato un chilometro attraverso una piccola strada tra i campi». Continua: «Io e mia moglie abbiamo pagato 300 dollari a testa solo per passare il confine. Elyas non ha pagato nulla».

È invece Neslihan il trafficante turco a cui Robar e Amira hanno dato 1.200 euro, per un viaggio di tre ore in mare dal porto turco di Bodrum all’isola greca di Leros. Amira racconta: «Siamo arrivati ad Atene, in un traghetto insieme ad altri 2.500 migranti», e sospira «Due settimane da al-Hasakah alla Grecia, nascosti per ore nei boschi del confine turco-siriano, aspettando di attraversarlo di notte, rannicchiati e contrabbandati in gommoni e mercantili, implorando acqua». Poi il viaggio è continuato a piedi. Dieci giorni, 500 chilometri. Fino a Gevgelija, sonnolenta cittadella macedone.

Qui nessun centro di accoglienza li attende. Arrivano da Aleppo, Homs, Kobane, Tartus, Hama e Damasco. Gli ultimi passi sui binari che portano dal villaggio greco di Idomeni ai treni di Gevgelija. Presto i rifugiati incontrano la polizia macedone. Li obbligano ad aspettare senza motivo e per un tempo non definito. Dormono su scatole di cartone per le strade, mentre attendono l’arrivo dei documenti e il permesso di rimanere in Macedonia o Serbia per 72 ore.

Spesso non esiste una mèta. «La maggior parte vuole andare in Germania o in Svezia» confermano le autorità macedoni.

Samer è arrivato in treno a Tabanovtse, vicino al confine con la Serbia. Per tre volte ha cercato di attraversare il confine tra Macedonia e Serbia e per tre volte è stato respinto dai soldati serbi.

Sa del muro che continuano a costruire tra Serbia e Ungheria? «È una rete, si può passare sotto…». Il fratello ha attraversato il confine serbo-ungherese, nei pressi di Asotthalom. Lui farà lo stesso.

Da Gevgelija partono solo tre treni al giorno per Skopje. Il biglietto (che prima costava 6,50 euro) adesso costa 10 euro. Nessuna restrizione sul numero di biglietti venduti: significa che i colorati treni rossi e gialli macedoni diventano vagoni merci. La scena è la stessa per ogni partenza. Spintoni, grida e ammassi di persone sulle banchine. Tutti i vagoni si riempiono troppo rapidamente, lasciando a terra donne e bambini in lacrime.

Le banchine della piccola stazione ferroviaria di Gevgelija degli anni ’70, hanno spazio sufficiente per una ventina di passeggeri. Fino a poche settimane fa si aspettavano i treni arancioni che portavano verso il nord. Ora si lotta per un posto. Esausti si dorme ovunque: basta trovare un posto, sotto una striscia di luce tremolante. È il risultato della rotta dei Balcani occidentali: mare, giorni di cammino e controlli. Spietata quanto la traversata in mare dalla Libia.

Ci sono due rotte attraverso i Balcani dalla Turchia. Quella dei Balcani orientali, diretta in Bulgaria, via terra, complicata dalla recinzione di reti metalliche e filo spinato, costruita lungo i 160 chilometri del confine turco-bulgaro. E quella dei Balcani occidentali, diretta in Ungheria, attraverso Grecia o Albania, Macedonia e Serbia.

Coloro che sopravvivono rischiano di essere picchiati dai trafficanti o dalla polizia locale. O peggio, arrestati e inseriti nella lista dei richiedenti asilo politico in paesi come l’Ungheria, di fatto negando ogni possibilità di ottenere asilo invece in Germania, Svezia o Regno Unito.

Secondo l’Unhcr, negli ultimi giorni, più di 10 mila persone hanno raggiunto la stazione di Presevo, in Serbia.
Hisham, palestinese rifugiato nel campo di Yarmouk a sud di Damasco, è arrivato nella città ungherese di Szeged, ma è rimasto fermo per giorni in uno dei piccoli campi disseminati sulla strada principale tra Skopje e Belgrado, prima di raggiungere il centro di registrazione dei rifugiati a Presevo in Serbia.

Nella stazione di Presevo, giovani serbi contrattano con i rifugiati i prezzi degli autobus. Hisham spiega: «Sono 25 euro per Belgrado, 32 per Subotica. I bambini piccoli viaggiano gratis. Dopo 400 chilometri fino a Belgrado, ne rimangono solo 200 per l’Ungheria».