Che smacco. È fallito in Macedonia il referendum sul nome del Paese tanto voluto dal premier socialdemocratico Zoran Zaev per ratificare l’accordo storico sancito con la Grecia di Alexis Tsipras per la nuova denominazione di «Macedonia del nord» dell’ex Stato jugoslavo che ancora internazionalmente si chiamava, e a questo punto si chiama ancora, con l’acronimo Fyrom.

È infatti accaduto che semplicemente i macedoni non sono andati a votare, la partecipazione è stata solo del 37% degli aventi diritto, mentre il referendum per esser valido avrebbe dovuto ottenere almeno il 50% più uno. Già è in campo una lettura politica che punta a “far finta di niente”: in fondo il 90% di quelli che hanno votato è per il sì e, ora lo si sottolinea mentre prima quasi lo si nascondeva, il referendum era solo consultivo, quindi sarà il parlamento macedone a decidere.

E PROBABILMENTE anche quello della Grecia dove l’accordo storico di Prespa – voluto da Tsipras per liberarsi della palla al piede del nazionalismo greco anti-macedone e per ingraziarsi governi e organismi internazionali di fronte ai nuovi problemi della crisi interna – ha suscitato di fatto, insieme a contraddizioni anche a sinistra, una crisi della coalizione che sostiene il governo a guida Syriza ma con la partecipazione di minoranza della destra nazionalista di Anel, il partito dei Greci indipendenti che in parlamento conferma che voterà no mettendo così in forse la tenuta della maggioranza. Ma anche a Skopje Zaev non ha la maggioranza parlamentare e difficilmente si accorderà con i nazionalisti slavo-macedoni del Vrmo-Dpmne, tantopiù che emerge rafforzato il protagonismo del presidente della repubblica Gjorge Ivanov che in campagna elettorale e addirittura prendendo la parola all’Onu, ha apertamente invitato i macedoni a boicottare il voto. Non a caso si parla di elezioni anticipate.

Dunque hanno vinto i conservatori nazionalisti e si allontana la prospettiva “progressista”dell’Unione europea e della Nato? È la tesi ricattatoria, dei media e degli organismi internazionali e che torna a pesare sui macedoni che di fronte al voto non avevano poi tante scelte nella formulazione che chiedeva se erano o no d’accordo all’ingresso nell’Ue e nella Nato attraverso un sì all’accordo con la Grecia sul nuovo nome del Paese – dove l’adesione al Patto atlantico, è messa sullo stesso piano di quella all’Unione europea e viene presentata come discrimine di democrazia mentre è solo annuncio di nuove subalternità, a partire dall’aggravio dei costi della difesa.

Ma le cose non stanno proprio così. In primo luogo va osservato che le forze della destra macedone sono assolutamente d’accordo all’adesione all’Ue e, figuriamoci, a spada tratta anche alla Nato. Ora, senza vedere le responsabilità in casa europea, si preferisce attribuire responsabilità alla Russia – invece piuttosto isolata e perfino in difficoltà nel patrocinio della sola Serbia – e ai siti online che pure una influenza hanno avuto sulla non partecipazione al voto; certo Putin se la ride, ma rilanciare il Russiagate a questa latitudine, nei Balcani, è perlomeno altrettanto risibile. Perché qui la Nato, più dell’Europa, gioca in casa e l’ha fatta e la fa da padrone su tutto il sud-est europeo, almeno a partire dalla guerra “umanitaria” per il Kosovo indipendente nel 1999, dove ha fatto valere non le ragioni della democrazia ma i rapporti di forza dei bombardamenti aerei; e dove controlla praticamente tutto, i governi e un territorio disseminato di basi militari, mentre la sua ombra armata si allunga ora sul Montenegro a proteggere l’aspirazione di “zona franca” di uno staterello corrotto, come il Kosovo, e apposta filo-occidentale.

LO SMACCO è infatti proprio dell’Occidente atlantico. Qui, nei Balcani come in Europa, non vincono i nazionalisti per la loro intrinseca forza politica ma per la debolezza e l’ambiguità della proposta internazionale.

A proposito di ingerenze, lo smacco è per Angela Merkel corsa a Skopje a sostenere il referendum come hanno fatto Federica Mogherini, il leader austriaco Sebastian Kurz, il segretario della Nato Jens Soltenberg e il capo del Pentagono James Mattis.

TORNA NEI BALCANI il nodo del ruolo della Nato. E ci si chiede: come poteva essere convincente un referendum per l’ingresso nella Nato con un premier che rivendicava la validità di questo obiettivo riconducendola alle promesse da confermare del primo referendum del 1993? Chi scrive intervistò a più riprese il padre dell’indipendenza macedone Kiro Gligorov, una figura mitica che come presidente riuscì a trattare con Milosevic e a portare fuori dalla guerra il Paese, rivendicandone l’indipendenza anche da trattati che l’avrebbero coinvolta in nuovi conflitti; e che infatti si oppose al ruolo della Nato nella guerra contro l’ex Jugoslavia. Non a caso il parlamento dovrebbe correggere quella costituzione primaria che ha fin qui salvato il Paese che Kiro Gligorov considerava una “piccola Jugoslavia”, da proteggere e garantire contro tutti nelle sue diversità etniche e linguistiche. Non a caso subì un criminale attentato nel 1994 che lo menomò. Come potevano inoltre essere convincenti un accordo e un referendum che tacciono l’iniziativa programmatica dell’unico nazionalismo davvero attivo nell’area, non più quello slavo sconfitto, ma quello albanese? L’ALBANIA È IN LIZZA proprio con la Macedonia per l’ingresso nel Patto Atlantico; e la Macedonia, culla a Tetovo e Gostivar dell’Uck e dell’irredentismo grande-albanese nell’area, ha visto la guerra civile insanguinare il Paese fino al 2002 con strascichi anche più recenti fino al 2015. Un irredentismo che si è irradiato nell’area anche grazie all’intervento militare della Nato del 1999 in appoggio all’Uck in Kosovo.

Anche nei Balcani, che qualcuno pensa pacificati e dove la storia non passa, nell’azzeramento di ogni proposta di eguaglianza di diritti sociali e di comunanza vera di interessi economici e politici internazionali, il nazionalismo – la follia che ha devastato, con l’aiuto dell’Europa, la Federazione jugoslava – si propone come l’ultima memoria residuale di fronte ad una proposta internazionale ricattatoria che conferma la subalternità e la sottomissione del Sud-Est europeo. Insomma, prima l’Unione europea si libera dell’apparentamento con la Nato, e meglio è. Ora il rischio, indubbio, è che l’evidenza di questa condizione ispiri gli istinti peggiori e una nuova, perdente quanto infinita contrapposizione.