Le parole sono tutto quel che abbiamo, ricordava Beckett, ma aggiungeva: «sono macchie non necessarie, che impiastrano il silenzio e il nulla». Da un simile orientamento verso uno spazio linguistico tendente all’oblio e al silenzio, si trae la stessa forza oscura dell’irrappresesentabile, che colora i tentativi di molti racconti di guerra. Protagonista dell’ultimo romanzo di Jo Baker, L’irlandese (traduzione di Giulia Boringhieri, Einaudi, pp. 320, euro 20,00) Samuel Beckett si domanda a cosa servano le parole; ma la questione traversa, in realtà, tutti i suoi scritti, da Murphy, in cui Celia si sente «sporcata» da termini che muoiono non appena vengono pronunciati – «ogni parola cadeva nell’oblio, prima di avere il tempo di significare qualcosa, scalzata com’era dalla parola successiva» – fino ad Aspettando Godot, in cui, se le parole non rispondono alle cose e alle situazioni, è perché non appartengono più davvero a nessuno.
La tensione verso la possibilità di dire ciò che non ancora è stato detto, è forse l’aspetto che prima di tutto allerta il lettore di questo nuovo romanzo biografico, opera di finzione storica centrata su un arco di anni cruciali per la carriera letteraria di Beckett, quelli a cavallo della Seconda Guerra Mondiale.

Alle prese con Murphy
Scritto al presente, il libro vede lo svolgersi lineare di uno stralcio della biografia di Beckett quando, con la compagna di sempre, Suzanne Deschevaux-Dumesnil, ebbe modo di vivere in Francia in contiguità con James Joyce e Marcel Duchamp. Giocò poi un ruolo non secondario nella Resistenza Francese, prima di fuggire da Parigi a Roussillon dopo il tradimento ad opera di un prete, e infine tornare brevemente in Irlanda e dare definitivamente una svolta alla sua carriera di scrittore.
Fu infatti negli anni successivi al conflitto che Beckett compose alcune delle sue opere maggiori, a partire dalla trilogia Molloy, Malone muore e L’innominabile. Nell’arco degli anni compresi dal romanzo, invece, era alle prese con la traduzione in francese di Murphy che segna forse il taglio, mai definitivo, del cordone ombelicale con il suo primo e ultimo mentore, quel James Joyce la cui ultima opera, Finnegans Wake, stava passando relativamente sotto silenzio proprio a causa degli sviluppi bellici.

Il peso di Joyce nella biografia del suo ex collaboratore – lo dimostrano le lettere e soprattutto le opere – è un fardello ingombrante: così appare anche nel romanzo di Baker, che tuttavia eccede in qualche ammiccamento di troppo: «Bere e lasciar parlare il più anziano … Ogni tanto apre bocca e le sue parole cadono nel vuoto, allora la richiude e decide di non aprirla più. Perché Joyce è loquace, questa sera, malgrado la stanchezza, e qualunque cosa dica è sempre straordinario; è straordinario essere lì ad ascoltarlo».
Se l’opera precedente con cui Jo Baker ha raggiunto la notorietà, Longbourn House, era un esperimento, sulla scia di Jean Rhys e Tom Stoppard, giocato sulla infinita possibilità di riscritture dei classici (nello specifico di Orgoglio e pregiudizio) L’irlandese tenta un’operazione forse più raffinata ma anche più rischiosa, quella di concentrarsi con ottica teleologica sulla storia di uno scrittore che di storie vere e proprie non ne scrisse mai.

È stato detto, ad esempio, che Godot realizza qualcosa di teoricamente impossibile: è una pièce in cui – com’è noto – non accade nulla, riuscendo tuttavia a tenere incollati alla sedia gli spettatori; se si considera che il secondo atto riprende il refrain del primo, Beckett sarebbe riuscito a scrivere una commedia in cui non succede niente per ben due volte. Al contrario, il libro di Baker si cimenta con l’impresa di riempire il nulla di storie su storie, a cominciare dalla collaborazione dello scrittore con la resistenza: nulla di inventato, anzi, ricordare l’impegno politico e umano di uno scrittore che altrimenti rischia di esser considerato eccessivamente etereo e disinteressato è utile, malgrado il fatto che in anni più maturi Beckett liquidasse quel suo ruolo come «roba da boyscout».
Il romanzo punta su un tipo di narrazione piuttosto convenzionale, con una intenzione non sempre convincente di ricostruire i contatti amicali e intimi dell’irlandese, e al contempo far passare sullo sfondo anche quella che sarebbe stata la sua elusiva poetica. Perché talvolta l’autrice aspira a stabilire una corrispondenza tra contenuti letterari e vita vissuta che, nonostante la totale aderenza del romanzo alle maggiori biografie di Beckett, può creare un qualche imbarazzo, dal momento che un’estetica dell’indeterminatezza non sempre si accorda senza traumi con la necessaria linearità di una narrazione.

Ne soffre più di tutti la relazione tra Beckett e la compagna di una vita, Suzanne, forse mirata a riprodurre, fatto salvo lo straniamento connaturato al caso, la coppia Vladimir-Estragon di Godot e la loro incapacità di comprendere, da un lato il contesto in cui si muovono, e dall’altro il senso finale del loro ritrovarsi sul palcoscenico della vita. Ciò cui approdano è un misto di tensione tra l’andare avanti e la stasi: «Arrivano in un campo aperto, coperto da una bassa sterpaglia e completamente esposto…. Si tengono stretti per mano, i palmi sono caldi e sudati; … Lui è costretto a tenere il braccio indietro verso di lei, lei incespica per non perdere la sua mano. È scomodo, li impaccia, sarebbe meglio mollare la presa. Non la mollano».

A confermare lo stretto rapporto con la più nota tra le opere teatrali di Beckett, il titolo originale del romanzo, A Country Road, A Tree, è la prima delle indicazioni di scena della commedia, e prelude a una peculiare inconcludenza, estremamente significativa, capace di invitare da subito il lettore ad attendersi una qualche corrispondenza tra opere e biografia.

Una sfida prettamente modernista
La scelta del titolo italiano, invece, segue tutt’altra logica, privilegiando un aspetto di Beckett che non troppo spesso viene messo a fuoco, quello di uno scrittore di lingua inglese ma nato in Irlanda, e che per giunta scriveva in francese: un aneddoto del libro fa sì che uno sprovveduto signore gli si rivolga così: «Signor Beckett, ma lei è inglese?». E lui: «Au contraire».

Certo, il politico Daniel O’Connell, conosciuto in Irlanda come «il Liberatore», parlando dell’inglesissimo generale Wellington, a cui era capitato di nascere a Dublino, aveva già avuto modo di ammonire: «non basta esser nati in una scuderia per essere considerati cavalli». Tuttavia, il sottolineare troppo il legame tra l’indeterminatezza di una poetica e il senso di spaesamento geografico-linguistico che Beckett dovette sperimentare per tanti anni, suscita domande perturbanti riguardo all’effettiva possibilità di rappresentare il mondo da spazi che non siano instabili e precari. È una sfida che i modernisti e i loro successori raccolsero a viso aperto: si autoimposero un esilio e lo accettarono come unica cura nei confronti della dispersione e smaterializzazione dell’io a cui sembrerebbe puntare la fuggevolezza delle parole.