A giudicare dal quadro Padre e figlio (1934) di suo figlio Fausto non dev’essere stato troppo difficile essere figlio di Luigi Pirandello: un sereno interno borghese, col padre in piedi, assorto e disteso, le mani dietro la testa, e il figlio intento a lanciare in alto e raccogliere la palla durante una pausa di una partita di pallacorda. Eppure le ossessioni pirandelliane del doppio, dell’altro, dell’inafferrabilità della vita con la forma e della moltiplicazione sistematica dei punti di vista sembrano affacciarsi tutte nella pittura di Fausto, cui ora la Estorick Collection di Londra dedica una ricca retrospettiva che punta a ricostruirne l’intero percorso, dagli esordi classicisti degli anni venti alle sperimentazioni cubiste degli anni trenta fino alle fascinazioni surrealiste degli anni quaranta e alle tentazioni espressioniste degli anni cinquanta: Fausto Pirandello 1899-1975, fino al 6 settembre; catalogo in inglese, pp. 74, con testi di Fabio Benzi, Francesco Leone e Flavia Matitti).

Più che l’inserimento nei vari ismi novecenteschi, tuttavia, nel caso di Fausto Pirandello l’interesse principale sta nell’indagine del rapporto col padre (grazie al quale esordiva, con una xilografia per la copertina delle Novelle per un anno del 1921). Certo, fu allievo di Sigismondo Lipinski e Felice Carena a Roma, poi incontrò e frequentò Giorgio De Chirico, Alberto Savinio e Filippo De Pisis a Parigi, in seguito fu recensito e sostenuto da Renato Guttuso, più tardi s’intersecò e dialogò con Afro, Leoncillo, Birolli, Santomaso e Morlotti sotto l’egida di Lionello Venturi; ma dal rapporto col padre non può sfuggire. Anche nell’assenza: il padre e il figlio del quadro sono infatti lui e suo figlio anziché lui e suo padre. Del resto, la sua stessa pittura, e tutto ciò che comportava in termini di costruzione autobiografica, è da un certo momento in poi un gesto di ribellione al padre, se il matrimonio con la modella di Anticoli Corrado, Pompilia D’Aprile, e la successiva nascita del primogenito, Pierluigi, vennero tenuti nascosti da Fausto a Luigi fino al 1930. Nei dettagli andrà cercato un trauma, allora, un’indicibile sacralità: la testa di bambola nelle mani della mamma, a coprirle la faccia, mentre la figlia guarda attraverso le sbarre di una sedia, che non può non far pensare alla riflessione paterna su maschera, identità e prigionia; la mano e il piede di marmo che escono di sotto alla gonna di una donna su una scala, su cui salgono due polpacci con scarpe a tacco alto senza corpo sopra, che gioca con lo smembramento, i fantasmi, l’incompiutezza e la metamorfosi; i vestiti alla rinfusa di una stanza borghese dove una donna ben in carne attende il suo Giove per pioggia d’oro, con rivisitazione e scadimento del mito; il gesto di pettinarsi e la folla su una spiaggia; i corpi delle modelle e degli atleti; i tetti e le cupole di Roma; una salamandra che porta un 5 di coppe; una spiga in mano a un contadino durante la siccità.

«Strambo inventore di soggetti», lo definiva un ostilissimo Ugo Ojetti, che fin dal 1935 gli rimproverava di non avere «un minimo di logica»: pittore di corpi e di ombre, Fausto era certamente al di fuori del mainstream che a quel tempo imponeva il realismo fascista. Non capire e non capirsi sono invece le questioni che Fausto affronta, in uno spietato corpo a corpo con l’ombra del padre: non tanto la classica angoscia dell’influenza, quanto una più angosciosa sfida all’ombra – che è altro tema paterno, su cui si fondava la predilezione per Chamisso esibita alla fine del Saggio sull’umorismo. L’altro incombe sempre, occultato, evocato, imposto o rimosso: l’horror vacui ne è sintomo, il culto della forma diagnosi, il trionfo della carne terapia. Pittura religiosa, la definiva lui stesso, forse perché c’è sempre qualcosa che sfugge, una mancanza costitutiva, un anelito ad altro. Come non collegare all’umorismo paterno, del resto, l’aneddoto che Fausto raccontava di un incontro con Ojetti alla Biennale di Venezia, il quale lo fermò per chiedergli perché dipingesse donne così brutte: alla sua risposta che non ne trovava di più attraenti, Ojetti lo invitò a guardarsi intorno. Fausto rivolse allora lo sguardo verso la donna con cui Ojetti si accompagnava, davvero bruttissima, costringendo l’interlocutore a una chiosa immediata: ‘Magari un po’ più in là’.

Sarebbe ingiusto tuttavia leggere la pittura di Fausto solo alla luce delle parole di Luigi. L’individualità non è mai isolata, ma non è neppure mai negabile: Fausto è inesorabilmente figlio, ma anche e proprio perciò va oltre il rapporto col padre – come tutti. Grandissimo sperimentatore di forme e linguaggi visivi, sempre un po’ in ritardo sui tempi, Fausto sembra scappare continuamente dai vincoli estetici che la sua stessa ricerca gli faceva incontrare: nella sua pittura si scontrano, inevitabile clash, vitalismo e formalismo, ambizione alla compiutezza e bisogno dello smembramento, fascino della carne e paura del godimento, serenità borghese e traumi interiori. Realismo magico, si è detto, sempre sospeso tra purezza della composizione e nudità dei corpi, vagheggiamento dello stato di natura ed esercizio vigile della ragione: sotto quel sole di Sicilia che asciuga i corpi fino a seccarli e che nel calore del mezzogiorno arde ma non brilla, «l’autentico sovrano della Sicilia», come lo definiva il contemporaneo e conterraneo Tomasi di Lampedusa, «il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in un’immobilità servile, cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano all’arbitrarietà dei sogni». Letto continuamente come esponente di una generazione, associato alla Scuola Romana e collaterale al Gruppo degli Otto, Fausto Pirandello merita certamente, come invita a fare la mostra, una riconsiderazione personale: pittore dell’aggregazione di frammenti plastici, giusta Guttuso, o dell’incarnazione dell’inanimato, come voleva Corrado Alvaro, Fausto è davvero l’artista del Novecento italiano che più ha sentito la voglia di uscire dai confini, anche nazionali, per essere sé, e il bisogno del limite, anche claustrofobico, per appartenere. Il «naufragare delle verità date», in «uno sgomento che qualche volta porta ad atti disperati», nella zona grigia in cui l’oggetto è ormai inafferrabile e il soggetto gli si sostituisce, è la sua poetica, come scriveva ormai maturo, nel 1952, per presentare i suoi pastelli.

La critica di matrice anglosassone ha voluto di volta in volta associarlo a Lucien Freud per la carnalità dirompente oppure a Willem De Kooning per il tormento espressionistico, come se potesse aver senso solo come anticipatore, ma il suo percorso è essenzialmente legato alla dialettica di affrancamento e nemesi. Una volta schiacciato, può ridefinirsi e riformarsi: nel passaggio dal grigio diffuso degli anni trenta e quaranta alla piena luce e disponibilità coloristica degli anni cinquanta e sessanta si assiste a una svolta che si può leggere come percorso (o progresso), ma anche come l’altra faccia della stessa medaglia, su un piano paradigmatico anziché sintagmatico. Sfuocando i confini o accendendo i riflettori, insomma, Fausto Pirandello starebbe facendo sempre la stessa cosa: nascondersi, salvo svelarsi, ancora, nei dettagli. La Befana a piazza Navona (1951) riassume tutto: apparentemente solo una scena di festa, in realtà il trionfo di volti resi anonimi dalla partecipazione all’evento collettivo che tutto omogeneizza e uniforma. Tra questi volti, anonimizzato come gli altri e parzialmente coperto da un palloncino bianco, l’osservatore determinato potrà trovare quello di un uomo con barba bianca a pizzo e cravatta rossa su camicia bianca, riconoscendovi, magari con forzatura sovrainterpretativa, una figura dalla sagoma familiare – non troppo dissimile dall’iconografia classica di suo padre, il premio Nobel Luigi Pirandello, che lui stesso ritrasse nel 1933: illusione o allusione? Poco importa, alla fine, perché ciò che si vede è l’incontro tra ciò che si vuole vedere e ciò che è possibile vedere. Lacan lo spiegava benissimo quando parlava di funzione macchia: il soggetto non riesce a guardare e si fa guardare, depositandosi in una macchia e divenendo esso stesso macchia, in quanto impossibile a raffigurarsi, eccedenza scappata dall’invasione del significante. Così, Fausto dice sempre qualcosa di più perché porta un fantasma con sé. Luigi era in effetti presente all’inaugurazione della mostra: il figlio di Fausto, che porta il nome del nonno.