Non è una guerra sola quella che combatte Hirut, la giovane protagonista di Il Re Ombra (Einaudi, pp. 440, euro 21, traduzione di Anna Nadotti) della scrittrice Maaza Mengiste, nata a Addis Abeba e che da tempo vive a New York dove insegna al Queens College.

QUANDO LA GIOVANE ripensa alle lezioni che le impartiva il padre dopo una lunga giornata di lavoro nei campi, al rigore delle sue istruzioni su come maneggiare il Wujigra, un solido fucile francese vecchio di trent’anni, «costringendola a far mostra di caricare, poi puntare, infine premere il grilletto mentre lui le sussurrava, “Di nuovo, più in fretta”», sa bene che ciò che la opprime non ha solo il volto brutale degli occupanti italiani. Ha conosciuto la violenza, lo stupro, l’umiliazione di essere alla mercé di altri, etiopi come lei, ma il cui lignaggio comprendeva il potere di poter decidere delle sorti dei propri simili.

E quando un’altra donna, Aster, malgrado fosse proprio quella presso la cui casa viveva come una serva, o forse una schiava, moglie di Kidane, l’uomo che l’ha violentata mentre ancora intorno a loro infuriava la battaglia, chiederà alle donne che seguono i combattenti «chi ricorda cosa significa essere più di ciò che il mondo pensa che siamo?», non avrà dubbi. Diverrà un soldato, e dei più efficienti e temibili, e, al pari delle «sue sorelle d’Etiopia» non avrà «più alcun timore di ciò che gli uomini possono fare a donne come lei».

La tragica consapevolezza di Hirut che illumina di una luce spettrale ma non per questo meno intensa l’intera vicenda narrata in questo splendido romanzo già divenuto un bestseller internazionale, vincitore del premio Von Rezzori nel nostro Paese e finalista al Booker Prize 2020, non fa del resto che squarciare il velo del silenzio su di un crimine ancor più vasto e terribile: la guerra senza quartiere che l’Italia fascista condusse in Etiopia tra il 1935 e il 1936.

UN CONFLITTO, che il regime utilizzò per dar vita all’«impero» e accreditarsi sulla scena internazionale, costato la vita a decine di migliaia di civili – per le stime etiopi oltre 250mila vittime – segnato da ogni sorta di brutalità da parte delle forze italiane che fecero ricorso sistematicamente alla tortura, alla creazione di campi di concentramento dove lasciar morire di fame i prigionieri, e ai bombardamenti a base di iprite.

Una pagina, quest’ultima, come complessivamente quella della sanguinosa guerra coloniale che fu combattuta allora, che la memoria collettiva nazionale non sembra aver mai assunto fino in fondo. Con tutta la potenza di cui è capace la letteratura, Il Re Ombra invita invece ad interrogarsi senza sosta grazie ad un affresco nel quale echeggia il fragore del conflitto e il suo carattere «asimmetrico».

Ci sono gli aerei italiani pronti a sganciare il gas: «Qualcosa di empio, plasmato dall’uomo, una bestia forgiata da ferro e fuoco». E lo stupore di Hailé Selassié, l’imperatore d’Etiopia che a sua volta opprimeva il proprio popolo, che si fa proiettare i cinegiornali Luce che mostrano il porto di Massaua pieno di navi italiane e «vuole che le immagini scorrano su tre pareti. Vuole esercitarsi a sopportare il disorientamento e mantenersi calmo finché il mondo torna ad amalgamarsi». Le immagini della guerra che nessuno dovrebbe vedere sono però altre: quelle che ha immortalato Ettore Navarra, un soldato di origine ebrea che ha assistito sempre più turbato ai crimini che i militari agli ordini del colonnello Fucelli, un personaggio ispirato alla figura di Rodolfo Graziani, compivano sugli etiopi.

SONO QUELLE LE FOTO che nella primavera del 1976, mentre ad Addis Abeba monta la rivolta dei militari filo-sovietici contro l’imperatore, Hirut porterà in salvo per riconsegnarle a Ettore che durante la guerra di quarant’anni prima le aveva salvato la vita. Perché lui, come la giovane somala, aveva guardato quel conflitto per quello che era veramente e lo aveva scritto ai suoi cari in Italia perché tutti sapessero: «non era una guerra, padre, è questo che sto cercando di dire. Era un massacro».