Esistono guerre con una «dimensione etica»? Guerre che «meritino il sacrificio», al contrario di altre, prive di «purezza» e «nobiltà»? Ha senso «difendere un oppresso quando sai per certo che fra non molto si comporterà anche lui come un tiranno»? Quando scoppia una guerra fratricida e non si può fare nulla per impedirla, qual è l’atteggiamento giusto da tenere? Partire o restare? E se si resta, prendere posizione per una delle parti in causa anche a rischio d i perdere la vita e comunque l’innocenza, o «rintanarsi», cercare di scansare la tempesta, magari covando idee di suicidio? Questi e tanti altri sono gli interrogativi che i Disorientati (Bompiani, traduzione di Fabrizio Ascari, pp. 489, euro 20) del romanzo omonimo non cessano di porsi, individualmente e collettivamente, dai tempi della comune giovinezza trascorsa in una spensierata brigata di studenti fino all’età matura quando, dopo un quarto di secolo in cui ciascuno ha seguito da solo la propria strada, una serie di circostanze li portano a riavvicinarsi, a ricercarsi, forse a ritrovarsi.

Con la sua ultima fatica letteraria, Amin Maalouf torna a occuparsi del suo paese martoriato, il Libano – mai evocato per nome nel libro, solo adombrato con l’espressione, desueta ma pregnante, di «Levante» – con le infinite sfaccettature e punti di vista che caratterizzano questo mondo composito. Non è più il Libano del passato, come nel Rocher de Tanios (Col fucile del console d’Inghilterra) e neppure quello delle generazioni immediatamente precedenti, come nella ricerca famigliare di Origini, bensì proprio il Libano contemporaneo, tra gli anni ’70 e il 2001.

Descrivere efficacemente le mille anime di un mondo così complesso non è facile, ma Maalouf riesce, come sempre, a tratteggiare efficacemente gli infiniti scorci di un panorama complessivo più vasto, offrendoci in definitiva un’opera di grande ampiezza e profondità.

Un testo così ricco di intrecci e risvolti si presta alle chiavi di lettura più disparate. A un livello più immediato, la nitidezza della scrittura rende l’opera accessibile anche a lettori poco addentro ai problemi della complessità mediorientale, e coinvolge anche chi vi si accosti semplicemente per leggere un buon pezzo di fiction senza troppe pretese di approfondimenti storici o geopolitici. La trama avvince, i caratteri psicologici dei singoli personaggi sono finemente delineati, tenendo sempre presente l’inevitabile rapporto dialettico con le sollecitazioni e i condizionamenti cui ogni individuo è sottoposto per la propria storia personale, e l’amara e ambigua conclusione ben si attaglia a un’opera del nostro tempo.

Non si tratta però esclusivamente di un’esercitazione di scrittura fine a se stessa. Tra i molteplici spunti offerti dal libro, è centrale la riflessione teorica sul problema di fondo di questo secolo globalizzato, quello dell’identità. A ben vedere, lo si potrebbe considerare come un testo esemplificativo di quanto è esposto, in forma di saggio, in quel piccolo capolavoro di Maalouf che è Identità. Il titolo francese originale conteneva in più l’epiteto di «meurtrières» (assassine), e le selvagge contese che hanno insanguinato il Libano con il pretesto della salvaguardia delle diverse «identità» ne sono l’esempio più paradigmatico. Sarebbe un bell’esercizio leggere I disorientati tenendo accanto L’identità, riscoprendo nelle vicende del primo i profondi insegnamenti del secondo. La curiosa vicenda di questi personaggi che, dispersi anche a causa delle rispettive appartenenze religiose, linguistiche e di genere, si domandano se abbia un senso ritrovarsi insieme e, in fondo, sentono di poterlo e doverlo fare, è strettamente legata alla consapevolezza della comune appartenenza al genere umano, a una sorta di umanesimo primordiale, che costituisce il collante reale tra loro, ben al di là della semplice «amicizia», che in diversi casi si è irreparabilmente rotta.

Sul tema centrale dell’identità si innestano, in maniera spesso indissolubile, tanti altri temi, da quelli che più interrogano la coscienza individuale (la guerra inevitabilmente «sporca» tutto ciò che tocca, ma fino a che punto sfuggirvi emigrando preserva da questo nefasto contagio?) a quelli collettivi, come i problemi dell’integrazione dell’altro (quanto la mancata integrazione è colpa di chi si rinchiude sulla propria identità d’origine e quanto di chi si ostina a far sentire «estranei» i nuovi arrivati?).

Per avere un’idea della ricchezza di questo testo, che può dar luogo alle letture e agli approfondimenti più diversi, non sarà inutile soffermarsi a considerare due dettagli, uno di tipo cronologico e uno di tipo linguistico, che, all’apparenza senza soverchia importanza, si prestano invece a ulteriori riflessioni. Per quanto riguarda la cronologia, l’azione, scandita in 16 capitoli, copre i sedici giorni che vanno dal 20 aprile al 5 maggio 2001. La scelta è evidentemente motivata dalla necessità di collocare il ritrovarsi del gruppo in un periodo di «calma» dopo le sanguinose guerre che dal 1975 in poi hanno insanguinato il paese fino agli anni ’90. L’autore ha voluto trasportarci in un periodo quanto più possibile vicino a noi, ma prima dell’11 settembre, data che ha segnato il riesplodere di odi e violenze. Si dà però il caso che questo periodo coincida esattamente con lo scoppio della «primavera nera» dei berberi della Cabilia. Proprio il 20 aprile moriva Massinissa Guermah, la prima delle oltre 120 vittime fatte dai gendarmi algerini sparando contro la folla disarmata che chiedeva solo più democrazia. Una «primavera» che venne vergognosamente ignorata e abbandonata alla repressione da tutti i media occidentali, che solo dieci anni dopo si decideranno a dar voce alle «primavere» nordafricane. Il lettore che segue le vicende del «mondo arabo» si interroga: questa coincidenza temporale sarà un caso? Sarà un modo discreto (al limite del subliminale) di accennare all’universalità dei valori e dei problemi evocati nel libro?

Per venire alle questioni linguistiche, fin dall’incipit appare evidente che i nomi dei personaggi non sono scelti a caso ma hanno forti valenze simboliche, a cominciare dal protagonista, Adam («Porto nel mio nome l’umanità nascente ma appartengo a un’umanità che si sta spegnendo»). E in un elenco che viene fatto verso la fine in previsione di un incontro generale, anche tutti gli altri vengono ricordati, ciascuno accompagnato da un’etimologia o da un commento adeguato (solo riguardo a Semiramis, nata in Egitto e proprietaria della locanda omonima, l’autore si astiene dal far notare l’ironia che nasce dall’accostamento, inevitabile, al lussuoso Hôtel Semiramis che domina il centro del Cairo). Curiosamente, però, in quella lista spicca l’assenza dei nomi di due coppie, che pure nell’intreccio rivestono un ruolo non indifferente e quasi paradigmatico: «i due Ramz», Ramez e Ramzi con le loro spose, entrambe di nome Dunia. Ora, in arabo ramz significa «simbolo», ramez è «colui che si esprime con simboli» e ramzi è «simbolico, emblematico».

Non è un caso, io credo, che Maalouf abbia dato questi nomi ai due personaggi che in certo qual modo incarnano i due poli estremi tra tutte queste parabole divergenti. Amici inseparabili negli studi e poi nella professione, la vita li dividerà: uno finirà per ritirarsi dal mondo facendosi frate in un monastero di montagna, mentre l’altro, divenuto ricco, godrà appieno dei piaceri della vita pur continuando a lavorare sodo e con passione. Il merito – o la colpa – di queste scelte antitetiche va, in gran parte, alle rispettive mogli. A una Dunia che asseconda il marito e lo accompagna nel successo si contrappone una Dunia gretta, meschina e seminatrice di zizzania. In arabo dunia è un termine molto pregnante, che riassume in sé i concetti di «vita, mondo, vita mondana», e mi sembra evidente qui il messaggio simbolico di Maalouf: la vita, il mondo ci condizionano pesantemente e possono fare di noi ciò che in partenza nessuno avrebbe immaginato. In fondo, è quello che riassume il senso di tutta la vicenda: in questo mondo siamo tutti «in sospeso».