Nessuno degli attacchi cibernetici statunitensi condotti contro l’Iran è andato a segno, riferiscono i vertici di Tehran, che a cinque giorni dalla massiccia offensiva informatica possono trarre un sospiro di sollievo. «Si stanno impegnando al massimo, ma nessun attacco ha avuto successo», ha commentato il ministro delle Telecomunicazioni Mohammad Javad Azari Jahromi.

Sembra proprio che la Repubblica Islamica abbia fatto tesoro dell’esperienza Stuxnet. Nel 2010 il paese fu infatti preso di mira da uno dei più sofisticati malware in circolazione. Non un virus qualunque, bensì un’arma studiata a tavolino dalla National Security Agency statunitense e dell’intelligence israeliana.

Obiettivo dell’impresa? Mettere fuori gioco il software di controllo delle centrifughe della centrale nucleare iraniana di Natanz. Il sito in questione era infatti da tempo sotto la lente degli 007 americani, convinti che la centrale fosse il principale centro di arricchimento dell’uranio iraniano. Da qui, la volontà del Pentagono di arrestare quel «grande balzo in avanti» (dal punto di vista energetico) che la potenza sciita stava compiendo.

L’episodio ha cambiato per sempre il modo di fare la guerra, con la possibilità di colpire senza esporsi il “nemico” nei suoi punti nevralgici. E senza che questo se ne potesse accorgere. Gli ingegneri iraniani impiegarono mesi per rendersi conto che le continue disfunzioni dell’impianto erano causate da un software estraneo.

Se è impossibile calcolare l’ammontare dei danni economici che Stuxnet ha provocato in quel caso, si può invece constatare oggi l’efficacia del sistema di difesa informatica che l’Iran è riuscito a sviluppare. Un cyber scudo che solo lo scorso anno, secondo il ministro Jahromi, ha respinto 33 milioni di attacchi. E oggi è ancora in piedi.