Una folla di piccola borghesia nera del sud – facchini, maggiordomi, camerieri, cuochi, giardinieri – riempiva il tendone da circo, il suo abituale palcoscenico, mentre lei intonava, già da dietro il sipario, le sue prime note. E poi appariva, piume di struzzo attorno al collo, capelli ricci e volto rotondo pesantemente truccato, bling bling ante litteram coi suoi preziosi monili (compresa una collana fatta di pezzi di 20 sterline d’oro).

DI BASSA statura, sgargiante di gemme luccicanti nei denti e vistosa bandana in fronte, lunghi abiti da scena, ampiamente scollati sul seno generoso, con ballerine discinte a contorno. «Non era bella ma al suo apparire ogni cosa scintillava come i suoi gioielli, il suo sguardo catturava i reticenti e senza accorgersene il pubblico iniziava ad ondeggiare al suono delle sue parole, e poi le note diventavano gemiti e i gemiti amore» scrivevano un secolo fa degli show di Ma Rainey (1886-1939), la madre del blues, una delle prime grandi interpreti di musica afroamericana, la protagonista di Ma Rainey’s Black Bottom, la trasposizione cinematografica di un grande successo teatrale del drammaturgo Arthur Wilson, prodotta da Denzel Washington – ora su Netflix.
Siamo in un’afosa giornata estiva del 1927, a Chicago, dove un gruppo di musicisti si ritrova per sostenere e incidere alcune canzoni blues di Ma Rainey che saranno poi pubblicate su disco, i famosi race records, amati dal pubblico afroamericano, stampati in quegli anni dalla Paramount. Sono gli anni decisivi per l’affermazione del blues a livello nazionale e alcuni suoi brani – See See Rider e Chain Gang Blues – diventeranno estremamente popolari, Moonshine Blues verrà ripresa da Bessie Smith, la sua seguace e rivale di otto anni più giovane.

Gertrude Malissa Nix Pridgett era nata a Columbus, in Georgia, figlia d’arte, aveva cominciato a esibirsi nelle campagne coi vaudeville e i medicine show (dove imbonitori, canzonette e giocolieri aiutavano i farmacisti dilettanti a vendere i loro miracolosi elisir) poi aveva ascoltato, nel 1902, una ragazza per strada che cantava «un brano strano e doloroso» e da allora raccontava le sue personali infelicità sul tempo delle dodici battute. Dotata di una vena malinconica, si era sposata con Will Rainey, artista più anziano e navigato, e insieme facevano Pa e Ma Rainey. Un sodalizio di breve durata per la tempra vigorosa della vocalist, assai indipendente e bisessuale, (come racconta in Prove It on Me Blues, una vicenda autobiografica, sull’arresto subito da parte di poliziotti, che avevano fatto irruzione durante una rumorosa festa di sole donne) di grande carica magnetica eppure capace di scrivere più di 25 brani, in gran parte derivati dalla tradizione orale di hollers e shouters (i canti dei campi degli schiavi per comunicare tra loro). Una diva blues, che ha aiutato le donne nere a ritrovare la loro voce, a rompere i tabù sociali e sessuali della comunità afroamericana contro gli abusi e le umiliazioni quotidiane. Sono passati cento anni da allora e il movimento Black Lives Matter dice che i neri negli States stanno ancora aspettando di diventare esseri umani come gli altri.

«NON SONO MICA una bambola che potete mettere dove volete. Ma ascolta il suo cuore, Ma ascolta la voce dentro di lei. Faccio questo lavoro da tanto tempo, da quando ero piccola, io non accetto questo schifo, devono trattarmi come voglio. Se sei di colore, hai la rogna come un cane, ma io non gliele mando a dire, voglio essere chiamata Madame e fare come dico io. Non si preoccupano affatto di me, a loro interessa solo la mia voce. Vogliono inscatolarla e fare soldi». Recita Viola Davis che presta corpaccione e caratterino a Ma Rainey in perenne battaglia col suo agente e col produttore discografico, molto stimata e ubbidita dai suoi strumentisti, il trombonista Cutler (Colman Domingo), il pianista Toledo (Glynn Turman) e il contrabbassista Slow Drag (Michael Potts) tranne il giovane cornettista Levee, interpretato da Chadwick Boseman (l’indimenticabile Black Panther al suo ultimo ruolo su grande schermo) un gagà dalle scarpe gialle e la tecnica virtuosistica che sogna di mettere su una propria band con un suono più fresco e allegro per far saltare tutti dalle sedie. Ma Rainey, accompagnata dal nipote balbuziente e da una flapper ballerina sculettante (quello il fondoschiena nero del titolo, il black bottom, il ballo del momento con passaggi shimmy, gli ondeggiamenti del bacino, le tentazioni del diavolo in grado di catturare anche l’attenzione delle platee wasp) prova a combattere discriminazione e sfruttamento, in quel seminale periodo dell’industria discografica che non concede royalties e diritti di riproduzione ai protagonisti neri.

DIRETTO da George C.Wolfe, il film ha una forza sconvolgente, con scrittura delle battute e tempi perfetti: un entusiasmante lavoro collettivo, una chiamata e risposta corale da blues del XXI secolo. «Way down south in Alabamy/ I got a friend, they call dancin’ Sammy/ Who’s crazy about all the latest dancin’/ Black Bottom Stomp and the prancin’/ I want to see the dance you call the black bottom/ I wanna learn that dance/ Want to see the dance you call your big black bottom/ That puts you in a trance/ All the boys in the neighborhood/ They say your black bottom is really good/ Come on and show me your black bottom/ I wanna learn that dance».