Secondo un esperto di nuove tecnologie, i testi scolastici «sono morti, senza ancora saperlo» (Massimo Mantellini, Dieci splendidi oggetti morti, Einaudi 2020, p. 72). Fosse vero, la situazione sarebbe quella descritta dal Berni: «E come avvien quand’uno è riscaldato, / Che le ferite per allor non sente, / Così colui, del colpo non accorto, / Andava combattendo ed era morto». Invece, al momento, per la scuola si produono regolarmente molte opere nuove, non solo seduli revamping (che pure non mancano) dei più collaudati strumenti. Le novità sono richieste dal mercato e pure dal continuo, tormentoso riaggiustamento di norme, indicazioni e «linee guida»: il tutto determina il vorticoso ricambio dell’edito, che non sempre meriterebbe questa precoce obsolescenza. Sarebbe comprensibile, ma riduttivo, liquidare simili vicende come pura esigenza commerciale, il raro dinamismo di un mondo visto, per altri aspetti, come conservativo (l’insegnante, si ripete, non adotterà mai un libro che nel capitolo due non abbia il tale contenuto che è sempre stato là, proprio là!). Sul mercato scolastico pesano però anche eventi esterni: andrà misurato, un giorno, l’effetto indotto dalla cosiddetta «didattica a distanza», più o meno «digitale» o «integrata», che a partire dal marzo 2020 è stata imposta nelle scuole (anzi, adottata come straordinaria opportunità: semper hic erro). Talora poi, nei casi migliori, il rinnovamento forzoso dei libri ha aperto a ripensamenti significativi sopra l’identità delle «materie» (o come oggi le si debba chiamare: il «didatticamente corretto» è assai insidioso).

Il profilo storico include i minori
«Di tal genere, se non tali appunto» sono i pensieri suscitati da una recente intrapresa scolastica: Con parole alate Autori, testi e contesti della letteratura greca, Zanichelli, è opera di tre grecisti formatisi a Padova e attivi ora a Verona (Andrea Rodighiero, Sabina Mazzoldi e Dino Piovan), col supporto di altre collaborazioni. Un lavoro di dimensioni importanti: i tre volumi, destinati al triennio del liceo, constano ciascuno di oltre ottocento pagine (e 44,00, e 42,00, e 42,50). Il profilo storico è esteso a comprendere anche i minori; i testi della parte antologica, pure estesa, sono forniti ora in traduzione, ora in originale con commento analitico. S’uniscono anche schede diacroniche su temi come il sogno o il tempo o lo straniero, e aperture verso ambiti in passato «rimossi» dallo studio letterario, come il Greek love. Per una fruizione più «tecnica» giovano le pagine su «lingua e stile» dei principali autori: pagine utili a guidare verso la pratica vera dei testi, non verso i meccanici formalismi delle «analisi del testo» (tranne i didattologi, tutti sanno che la ricerca delle «figure retoriche» celate in un verso non serve a spiegare perché un tal poeta vada letto, tantomeno come). Altre schede, sotto il titolo-guida «Gli antichi dei moderni», presentano rivisitazioni spesso inusuali di testi o temi antichi: così a ragionare sulle Sirene è una pagina di Kafka, e a documentare la presenza moderna di Erodoto non è l’ambiguo film Trecento, né una lettura di Kapuscinski, bensì una pagina di Gore Vidal. Pur con l’equilibrio richiesto a un manuale, l’opera è in relazione con gli studi specialistici condotti dagli autori, e ciò accresce l’efficacia di alcune sezioni. Non vengono scansate le criticità: il contributo su Platone politico nella cultura del Novecento esplicita le complesse implicazioni del tema. Le scelte operate spiegano bene, a chi l’intende, il valore attribuito dagli autori alla formazione, e i motivi per cui andrebbe preservato lo studio del mondo classico.
Il manuale si presenta come uno strumento di lavoro che ambisce alla maggiore completezza possibile, in termini di cultura e non di erudizione o nozione. La ricerca di strade meno battute smentisce radicati pregiudizi. Molti cianciano sul liceo, in particolare il classico, come «nido della reazione», rimasto come «ai tempi della maestrina dalla penna rossa». Per certo, costoro non mettono piede in classe dai tempi del loro liceo, né conoscono i libri ora in uso. Altrimenti saprebbero quanto il classico sia cambiato (sia detto, con o senza rammarico: quantum mutatus ab illo!). A comprenderlo, invece dei ricordi, serve il confronto tra i libri.
Basta sfogliare lontani, venerabili monumenti come Il libro della letteratura greca di Ettore Bignone, con profilo storico e antologia (Sansoni, 1940), oppure Scrittori latini, la densa scelta curata da Concetto Marchesi e Giuseppe Campagna (Principato, 1951), nata a margine della celebre Storia della letteratura, e ristampata, nella undicesima edizione, fino al ’77. Erano antologie in volume unico, formate da testi con sobrie annotazioni (niente illustrazioni, esercizi, questionari). In quel tempo, i libri per la scuola potevano avere vita lunga, e conquistare l’antonomasia: lo Zenoni, il Tantucci, lo Spini, l’Argan (e non solo nelle humanities: anche lo Zwirner, l’Amaldi…). Per greco e latino, al liceo, si leggevano testi, si traduceva, si studiava la storia letteraria. Un assetto ora sconquassato e prossimo al definitivo tramonto. Anche perché non ci sono più «greco» e «latino»: dal 2010, grazie a un provvido «riordino», il tutto si chiama «lingua e cultura», greca e latina rispettivamente (sapevatelo!). E la differenza c’è, e come: nasce da nuovi approcci, ma soprattutto da nuovi orizzonti didattici. Ora sono obbligatori o comunque previsti dentro e intorno a ogni libro scolastico corredi d’ogni genere: non solo i materiali online, ma anche le soluzioni degli esercizi e le traduzioni dei testi da tradurre.

Un risultato graficamente variato
Un tempo gli studenti ingenui si stupivano che l’insegnante comprendesse a prima vista senza vocabolario i testi che spiegava: ora la stranezza si presume superata. Il punto è che il mezzo, si sa, è il messaggio. Sicché si capisce che gli odierni strumenti riflettono (e preparano) una scuola toto caelo differente da quella degli antichi maestri. L’accento sulla «cultura», invece che sulla letteratura, implica uno sguardo ampliato che abbracci, potenzialmente, ogni aspetto della civiltà greca e romana. «Vasto programma», diceva qualcuno.
Dunque la letteratura non basta più, e si impone di coltivare meno solipsismo e più interdisciplinarità? Difficile dire. Di sicuro c’è che, seguendo le mode attuali didattiche, viene distrutta paradossalmente la proclamata «centralità del testo». I libri sono sempre più caricati di «materiali»: immagini, colori, schede, approfondimenti, letture, esercizi, parole-chiave, schemi, recuperi, attività, laboratori, «ove per poco il cor non si spaura». Chissà che cosa ne direbbe il Genette di Soglie… Il risultato è graficamente variato, e piuttosto impegnativo, anzitutto per la paginazione lievitata, evitabile forse con il formato elettronico (che richiederebbe però un altro montaggio dei materiali). Di più. Per ottemperare a queste richieste estrinseche, i libri sono opera di un «cantiere» a cui contribuiscono molte maestranze. Nell’antologia di Bignone, ottanta anni fa, tutte le traduzioni, anche quelle in versi, erano dell’autore, mentre di altri paraphernalia non vi era traccia: e il tutto in meno di 600 pagine. Nella mole odierna, è difficile tenere una linea culturale unitaria e riconoscibile. Per i didattologi non è certo un problema, ma fruitori attenti sanno bene che talune collaudate opere, troppe volte rilavorate, mostrano vistose sfasature tra i profili letterari, più stabili, e gli apparati, soggetti a inesausto rimpasto.

Anche se non riporta, in apertura, una pagina programmatica, l’opera di Rodighiero e colleghi risulta, con poche altre, improntata a visibile unità di concezione: non un pastone generico e di seconda mano, bensì un quadro nato da un’idea definita dell’oggetto. Dal dopoguerra a oggi, i manuali per la scuola hanno proposto idee molto diverse di che cosa sia la «letteratura» (poi cultura) greca (e latina). Dopo la Grecia estetizzante, dell’intuizione lirica o tragica, si è avuta quella dei filologi, tra intertestualità e comunicazione, e quella degli antropologi, con l’etnografia e l’alterità barbarica. Il nuovo libro non aderisce in modo integrale a queste letture, di cui tiene attento conto, e presenta un mondo greco, inquieto talora, caratterizzato dalla «grandezza». Non la Grecia classicistica con annesso «miracolo»,tra astrazioni degli umanesimi e assorte preghiere sull’Acropoli, né quella politicamente corretta e «terzomondista»; nemmeno quella immaginata da una filologia orgogliosa di «saperla più lunga» sugli antichi anche rispetto agli antichi medesimi. In quest’opera, epica tragedia e filosofia occupano saldamente il centro, assorbendo le maggiori energie. Tra plaghe apollinee e fremiti dionisiaci, vi è spazio per l’immagine che la cultura greca volle dare di sé («i Greci secondo i Greci», si direbbe), ma non ci si ferma qui: urge anche lo sguardo dei contemporanei. Indagare «noi e i Greci» implica chiedersi a quali «Greci» di volta in volta «noi» guardiamo. Non è questione da poco e questo libro la pone, senza seguire la misera direzione della scuola italiana tutta. I classics potevano essere, e non saranno, patrimonio di una formazione europea. E invece avranno vita breve, perché il mondo nostrano dell’istruzione liceale si è adeguato (con lentezza, ma in modo definitivo) all’imposizione tecnocratica. Sarebbe stato importante poter insegnare in che cosa i Greci guardati dalla Germania, o dalla Francia, o dall’Olanda, sono stati e sono «diversi» dai Greci guardati dall’Italia o dalla Grecia moderna. Una questione di tanto evidente interesse, da suscitare la spinta a eliminarla. Per tutto il resto, c’è la DaD.