Al Festival di Cannes dove era in concorso è arrivato con l’aura del capolavoro, e l’investitura dei «Cahiers du cinema», la storica rivista della cinefilia francese che lo aveva eletto tra i film dell’anno ancora prima di vederlo. Ma con Bruno Dumont funziona così: amore incondizionato o irritabile affaticamento, almeno per primi titoli (L’Humanité)in cui il regista francese si divertiva a esibire la sua autorità (autoritarismo) nell’immagine di un assoluto spirituale fosse violenza, sporcizia, demenza, guerra, degrado.

 
Ora però qualcosa sembra cambiato e questo Ma Loute – da oggi nelle sale italiane – somiglia più al precedente, la serie di successo – un milione e mezzo di telespettatori su Arte – P’tit Quinquin che era stata presentata alla Quinzaine lo scorso anno, provocando molte critiche al direttore del festival di Cannes Thierry Fremaux per essersela fatta sfuggire. Anche qui c’è un poliziotto dall’aria maldestra, l’ispettore Machin, che una grassezza fuori misura rende ancora più goffo incaricato di investigare su un misterioso caso di persone scomparse. Lo accompagna Mafoy, un assistente piccoletto (coppia comica classica alla Stan Laurel e Oliver Hardy)al quale ricorre spesso per farsi rimettere in piedi quando rotola a pancia in giù. E c’è un paesaggio, il Nord della Francia ai primi del Novecento, con l’orizzonte che fugge verso il mare, in cui si muovono figure paradossali, crudeli, bestiali, e dove aleggiano paura e irriverenza. Questo crimine forse è seriale, della gente sparita rimane talvolta solo una traccia, come l’ombrellino giallo di una signora tondetta ma nulla di più. Nessun indizio, nessuna ipotesi.

 
Nel villaggio povero e sporco vive una famiglia di pescatori, i Brufort, che sembrano usciti da una fotografia di August Sender: i figli sono brutti e parlano un dialetto incomprensibile, per loro la strada, il mare, la risacca, le sabbie vischiose sono fatica ma per quella signora elegante e un poco svanita (Valeria Bruni Tedeschi) tutto quanto è meraviglioso. Lo scandisce alzandosi in piedi sull’automobile scoperta, mentre i pescatori arrancano a piedi carichi di sacchi. Sono i Van Peteghen, ricca borghesia industriale del nord che là per la villeggiatura, la loro casa domina la baia e il mare.

 
Alto e basso, ricchi e miseri, l’industria promessa di modernità e le piccole barche destinate a scomparire. La famiglia dei pescatori è antropofoga, divora carne umana (borghese) e emette grugniti bestiali, ma cosa nasconde quella borghesia affettata e inebetita, che somiglia più alla nobiltà ghigliottinata e si sposa tra cugini? Incesti obbligati dalle fusioni dei capitali come spiega il capofamiglia corpo comico di Fabrice Luchini. Tra mare e fango e bosco e palude i loro passi e i loro destini si intrecciano quasi inevitabilmente nelle figure dei figli adolescenti: il ragazzo «selvaggio» Ma Loute (Brandon Lavieville) e l’ambigua (sessualmente) nipote dei «padroni» Billie (Ralph). Una storia d’amore che appare come un’eresia, che sfida le classi ma anche il genere e le convizioni radicate nei ricchi e nei poveri: lei bellissima che si veste da uomo, figlia segreta, figlia del peccato, maschio e femmina insieme, l’ermafrodita, un capovolgimento di genere intollerabile per tutti.

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Ma nulla è un caso in questo film che il suo autore definisce pazzo e un racconto primitivo sulla nostra epoca alle soglie degli sconvolgimenti che produrrà la Prima Guerra Mondiale. «Volevo trovare la risata nelle zone d’ombra, che avevo già esplorato nel linguaggio drammatico dei miei film precedenti. Dovevo solo trovare la distanza giusta per farlo:l’auto-compiacimento è una purga» dice Dumont.

 
E per la sua versione della storia europea e del mondo umano l’ex professore di filosofia mescola star – tra i protagonisti c’è anche Juliette Binoche – e attori non professionisti (come appunto il giovane pescatore e suo padre), esaspera il grottesco (proprio come nella serie) a cominciare dalla lingua degli attori (chissà il doppiaggio…): quella dei borghesi comica nella sua pretenziosità come i loro gesti e i corpi ammalati di ipocrisia e perversione. E quella dei pescatori dura, tagliente, come le loro facce. Un accumulo però che finisce per saturare la proposta di messinscena, il respiro delle immagini costruite con precisione tra meravigliosi oggetti d’epoca e qualcuno che all’improvviso levita e scompare lontano.

 
Dumont utilizza il cinema e la sua storia, compone le sue inquadrature seguendo l’iconografia del tempo, affastella dettagli e riferimenti, voracità di classe e poesia: la materia del suo paradosso sono quei corpi che però forse a causa dell’eccesso eccesso di performance mancano di verità. Sono figurine, segni, anche quando perturbano l’ordine sfiorandosi in questa convivenza forzata. La geometria di quel mondo è infatti così forte da digerire tutto. Unico frammento impazzito, spazio di una liberazione impossibile è il corpo di Billie che si sottrae sempre e comunque alla regimentazione: corsetto o pantaloni, il rifiuto del genere, del ruolo, la sostanza della ribellione.