«Cerco un centro di gravità permanente / che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente»: nel 1981, dopo il dérèglement di Avanguardie e Movimenti, La voce del padrone di Franco Battiato è l’ironico quanto serio manifesto di un’epoca. Anche il mondo delle arti high viveva allora l’«affannata ricerca di un punto di ancoraggio, di un centro di gravità identitario, capace di ricomporre la difficoltà, lo smarrimento»: così ricostruisce il Wendepunkt 1979-’82 Stefano Chiodi in Genius loci Anatomia di un mito italiano (Quodlibet, pp. 139, € 12,00).
Ad Acireale, nel 1980, Achille Bonito Oliva riprende con Genius Loci il titolo di un saggio, di Christian Norberg-Schulz, pubblicato l’anno prima da Electa. Da allora quello diventa «un talismano che tiene lontana ogni contaminazione», fissando in un alveo temporale univoco il dato storico e culturale: Zeitgeist che si afferma in autonarrazione identitaria. Chi conosca i suoi estri e furori capisce come con questa sua ricerca – né saggio erudito né pamphlet polemico, ma ibrido del meglio delle due attitudini – Chiodi sia riuscito a dare, a quei furori, un nome preciso. Lui che da sempre, di contro, valorizza esperienze eccentriche, antinomiche e «strabiche»: anacronismi – nell’accezione di Agamben e Didi-Huberman – che «si appropriano del “classico” (…) in modo virgolettato, autocosciente, codificato in partenza» come per primo il «moderno in fuga dal moderno» Giorgio de Chirico, «il ritornante». Invocata è la Seconda inattuale (di quel Nietzsche che del Pictor era phare per eccellenza): «l’unica possibilità di salvaguardare il passato è metterlo in tensione con il presente, perché la buona filologia non può mai prescindere dalla critica e dalla politica». Contro un filologismo lenticolare e a sua volta «locale» Chiodi rivendica infatti, e pratica, una filologia del contesto: che tiene conto di quello che chiama, con Jameson, l’«inconscio politico» dei fenomeni.
Nel ’79 esce pure La condizione postmoderna di Lyotard; l’anno dopo sempre ABO lancia la Transavanguardia italiana che di questo «bisogno d’identità», con tempismo perfetto, diventa la «via italiana» al postmodernismo. Nel 1981 al Pompidou l’arcirivale Germano Celant celebra a sua volta l’Identité italienne, inveendo contro la Transavanguardia «opulenta, decorativa e facilmente comunicabile». Ma anche lui rideclinerà la «sua» Arte Povera in un «reboot» mirato oltroceano, che disegna quello italiano come «spazio onnicomprensivo (…), senza intervalli e scansioni». È la definitiva consacrazione glocal del brand Italia. Un’etichetta stereotipata sino all’autoparodia viene «svirgolettata» dal mercato globale, con la conseguenza avvilente per cui quel medesimo feticcio «orientalistico», soddisfatta abroad la fame perenne di cartoline e mandolini, rimbalza indietro: e patacche masscult come La grande bellezza o le saghe di Elena Ferrante possono essere inopinatamente deglutite anche dagli sventurati autoctoni.
Le pagine più aspre e geniali del saggio di Chiodi sono quelle in cui l’inconscio politico del genius loci moderno si rivela un grande chiasmo. Questa «elaborazione automitologica della cultura nazionale» si origina nella grande narrazione romantica e risorgimentale, ma si pietrifica schiacciante «durante il ventennio». Emblematici i discorsi di intelligenti critici fascisti come Waldemar George ed Ernesto Giménez Caballero: quest’ultimo intitolava nel ’32 al Genio de España il remix franchista del concetto di M.me de Staël e Chateaubriand. Nell’ultimo quindicennio, però, la difesa del «patrimonio inteso come fondamento identitario unificante, cristallizzato, falsamente immune dall’azione del presente», è stata cavallo di battaglia polemico della sinistra, o di una sinistra istituzionale che in nome di «una visione etica e civile del tutto condivisibile» (a fronte di coeve, spudoratissime pratiche di cementificazione e rapina) «finisce spesso per perpetuare gli stessi stereotipi, la stessa superficiale idealizzazione che si ripromette di combattere». Nelle pagine più urticate di Salvatore Settis o Tomaso Montanari, «anziché rappresentare un’alternativa all’eterno presente dei media e delle merci, il culto della memoria e del patrimonio» ne diventa «il prodotto più subdolo e la garanzia ideologica più inattesa».
In effetti l’inconscio politico dell’espressione patrimonio denuncia da un lato la subalternità psico-storica a modelli patrilineari, ma anche una visione tesaurizzabile della tradizione: non importa se da difendere dai predoni con-temporanei o viceversa da mettere spregiudicatamente a frutto, sino all’auspicata «cartolarizzazione», come i «giacimenti culturali» di cui parlava negli anni ottanta un personaggio molesto, ma non stupido, come Gianni De Michelis.
Piuttosto che del patrimonio del passato varrà la pena interrogarsi, allora, sulla sua eredità. Un’«eredità senza testamento», come detto da René Char e ripetuto da Hannah Arendt, è l’unica che si possa davvero ricevere; solo in forma paradossale, per «sottrazione»: «res amissa», «eredità potenziale che si sottrae a ogni facile caratterizzazione geografica, culturale o artistica». Artisti di oggi come Elisabetta Benassi, Lara Favaretto, Flavio Favelli, Gian Maria Tosatti o Luca Vitone sono a loro volta abitati dal Sense of the Past, ma nessuno di loro è fiero depositario di un patrimonio: incarnando viceversa la postura interrogativa, se non proprio sgomenta, con la quale ci rivolgiamo allo spazio-tempo multiverso dal quale oscuramente proveniamo e nel quale infinitamente ritorniamo.
Un titolo di Ugo Ojetti suonava, emblematicamente nel 1942, In Italia, l’arte ha da essere italiana?. Risponde Chiodi con l’anti-modello rappresentato dall’ex-italiano, il Clandestino, il transfuga perenne da un’«Ytalya» già negli anni cinquanta antiveduta depredata e colonizzata: Emilio Villa. Solo modo di essere italiani è allora essere «antitaliani»: questo il nostro «unico possibile genius loci».