«Nessuna polemica può oscurare i risultati di queste settimane, a cominciare dalla significativa riduzione del numero di sbarchi (-3.5 per cento sul 2016). E i nostri ministri, bravi e capaci, stanno facendo un buon lavoro. Capisco che è agosto ma non rincorriamo le polemiche di chi vuol trasformare tutto in una eterna campagna elettorale». Con un post su facebook Matteo Renzi prova a spedire in vacanza ministri e cronisti, e a chiudere il «caso Minniti» derubricandolo a querelle balneare. Tutta colpa dei giornalisti.

MA LA SPACCATURA SFIORATA fra ministri, di cui ancora ieri si sentiva l’eco nei complimenti del governatore leghista Maroni al titolare del Viminale, è stata profonda. E rischiosa. Ieri sera al Tg1 il ministro Graziano Delrio ha sciolto la tensione con il collega Minniti con un  «ci sentiamo tra poco per augurarci buone ferie». Minniti a sua volta  ha fatto sapere che si è «spiegato»  con il Vaticano, il più potente e temibile dei suoi critici, soprattutto per uno come lui attento al consenso, quello mediatico ma non solo.

Pace fatta dunque? Però  Renzi non ha smentitole parole che La Stampa gli attribuisce, pesantissime su «Marco», e cioè Minniti, «è come se cercasse costantemente la rissa con tutti: non serve perché sta lottando come un matto, sta facendo un buon lavoro e gli è riconosciuto», e un avviso, «quando si raggiungono vette altissime, come sta succedendo a Marco, non bisogna farsi prendere dalle vertigini».
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È UN SEGRETARIO DEL PD riflessivo, quasi introspettivo, forse persino autocritico con quel «se stesso» di prima che cercava «la rissa a tutti i costi» e che non ha saputo dominare «le vertigini». Chi ci ha parlato negli scorsi giorni ha riferito il proposito di fare un cambio di marcia, un tentativo di non essere più «divisivo». Tentativo che in questa ultima crisi preferragostana si è concretizzato in un lavorìo (telefonico, l’ex premier è in vacanza) di ricucitura del governo.

EPPURE MANTENERE il proposito alla ripresa non sarà facile. Non solo per il temperamento del segretario ma perché l’appuntamento con la legge di bilancio sarà una verifica della tenuta del suo partito ma anche del suo rapporto con il presidente Gentiloni. Che dovrà decidere se scegliere la linea da tenere: se adottare una strategia di inclusione con tutta la maggioranza, in primis con Mdp che minaccia tutti i giorni di togliergli l’appoggio. Ma qualche vittoria anche solo simbolica della sinistra ex Pd preoccupa Renzi.

STRETTAMENTE LEGATA a questa partita, c’è quella della durata della legislatura. E qui, di nuovo, sarà il premier Gentiloni a fare la differenza. Negli scorsi giorni è passata quasi sotto silenzio una divergenza di opinione proprio su questo fra i capigruppo dem di camera e senato, squadernata a proposito dell’approvazione dello ius soli entro la fine della legislatura. Renzi la ritiene «difficile», lo ha detto in piazzetta a Capalbio. Il complicato lavoro di tessitura siciliano con il partito di Alfano, che al senato si è imbizzarrito sulla cittadinanza,spiegherebbe meglio il pessimismo dell’ex premier.

SU QUESTO PERÒ il presidente dei senatori Pd Zanda, franceschiniano, la pensa diversamente: «Ius soli e fine vita per noi mantengono una priorità assoluta e prima o subito dopo la legge di bilancio ritengo ci sia il tempo per approvarli. E li approveremo», ha assicurato. Il contrario esatto di quello che aveva detto il collega della Camera Ettore Rosato per il quale dopo la manovra non resterà che sciogliere il parlamento e votare. Le ipotesi sono due: lo scioglimento delle camere a dicembre, o ai primi di gennaio, per andare al voto a marzo: contro quella dello scioglimento a scadenza della legislatura, a marzo, che porta il voto a aprile o forse persino a maggio.

NEL PRIMO CASO non ci sarebbe il tempo per riaprire la discussione sulla legge elettorale, nel secondo sì. Il primo caso è quello che Renzi preferisce, convinto da sempre che ogni minuto in più della legislatura lo logori e gli sgretoli via via il consenso; il secondo caso è quello preferito non solo da Franceschini, Orlando e tutti i «coalizionisti» vecchi e nuovi del Pd (che frenano i tempi per avere più fiato sulla composizione delle liste). Ma soprattutto è il preferito del Colle, che ha apertamente chiesto di mettere mano alla legge elettorale. E a cui spetta comunque la decisione sullo scioglimento delle camere.
E anche in questo caso, come per la legge di bilancio, le scelte di Gentiloni – con Renzi o con Mattarella – faranno la differenza.