Parate militari, commemorazioni di massa, membri dell’esercito che cantano nei giorni di anniversari e celebrazioni, carri armati. Sono alcune delle immagini che scorrono alle spalle dell’artista israeliana Ruth Rosenthal, insieme al compagno musicista francese Xavier Klaine, anima del duo artistico-musicale Winter Family. Sola sul palco si muove fra bandierine israeliane e mosse da marcia militare, dietro di lei video di bambini piccoli istruiti e preparati per esibirsi in manifestazioni commemorative: una sorta di chiamata collettiva alla partecipazione della storia del paese, una forma di propaganda quotidiana più o meno esplicita a cui è difficile sottrarsi.
Jerusalem Plomb Durci, Voyage halluciné dans une dictature émotionnelle, il nuovo spettacolo del gruppo, è nato come pièce sonora per l’emittente radiofonica France Culture. Nel 2008 i Winter Family hanno registrato a Gerusalemme suoni e musiche durante l’anniversario della formazione dello stato d’Israele e della riunificazione della città. Poi hanno approfondito il lavoro facendo confluire il materiale audio e video raccolto. Rosenthal canta, recita proclami al megafono, fa esercizi ginnici in quella che appare come performance di teatro documentario eun viaggio sonoro, testuale e visuale nella società israeliana. Plomb durci, nome dato all’operazione militare israeliana a Gaza del 2009, è una frase estratta da una canzone per bambini che si recita durante le festività ebraiche. Tutto questo mostra la costante e sistematica manipolazione esercitata dallo stato di Israele per rendere tutti «ostaggi di un sistema implacabile» come sostengono i Winter Family. Un’allucinazione collettiva che va oltre il conflitto israelo-palestinese, con una voce fuori campo che ricorda in sottofondo le risoluzioni dell’Onu, e denuncia le continue violazioni dei diritti umani.
Cosa significa «dittatura emozionale»?
Ruth: Lo spettacolo mostra un sistema fortemente dittatoriale, quello dell’educazione israeliana, che si costruisce attraverso le emozioni. Più difficile da definire dittatura rispetto ad altre più evidenti, ma che lo è a tutti gli effetti.
Xavier: Le celebrazioni, come quella in memoria della Shoah, seguita la settimana dopo da quella in ricordo dei soldati e dei civili morti in guerre e attentati, e il giorno successivo dalla celebrazione dell’indipendenza, avvengono in successione nell’arco di una decina di giorni accuratamente scelti dallo Stato. Dopo la commemorazione dell’Olocausto non è possibile mettere nulla in discussione, è un modo per zittire la gente costringendola ad ascoltare le sirene in silenzio.
R. :Nel paese si ha la consapevolezza che a 18 anni si entra nell’esercito, c’è un sistema che induce ad essere buoni soldati e buoni civili.
X.: É una delle ragioni per cui il popolo israeliano accetta condizioni di vita particolari. La gente comune non riesce ad uscire dal paese, il costo della vita è molto alto. La memoria interna ed esterna sono un mezzo di controllo sui nemici. Non appena qualcuno prova a criticare il sistema si paventa immediatamente lo spauracchio dell’Iran, della Palestina, di Hezbollah. Elementi che il regime utilizza per sedare gli animi, e la cosa peggiore è che sono ragioni reali. In realtà i vicini non sono da meno, eccetto i palestinesi che sono vittime. La popolazione accetta dal ’48 cose inaccettabili altrove, è sorprendente che gli israeliani lo facciano come bambini ubbidienti disposti ad essere uccisi e uccidere quando necessario.
R.: Tutto questo è facile da sopportare dato che l’educazione in tal senso inizia a tre anni. Fin da piccoli ci si ferma alla sirena che ricorda la Shoah. È così introiettato che diventa una memoria corporale.
Come ha reagito Israele allo spettacolo?
R: Credo che se ne freghi. Abbiamo ricevuto molte reazioni contro lo spettacolo da parte di attivisti ebrei e movimenti pro-palestinesi in Europa, meno da parte degli israeliani. Il presidente Netanyahu ha minacciato di ritirarmi la nazionalità israeliana. Possiamo rappresentare Jerusalem Plomb Durci in Israele, lo abbiamo fatto senza problemi, c’è una grande libertà di espressione, una sorta di vetrina democratica che lo stato d’Israele si costruisce. Gli artisti possono criticare anche se poi non cambia nulla. La minaccia di Netanyahu non significa granché, non può ritirare la mia nazionalità per uno spettacolo. C’è isteria su questo lavoro come su tutte le questioni che riguardano Israele.
Purtroppo il vostro lavoro ha una drammatica attualità. Nonostante sia del 2011 sembra scritto dopo l’ultima operazione militare israeliana dello scorso agosto a Gaza.
R.: È la prima volta che lo riprendiamo da allora. La situazione non è cambiata, si sono aggiunte solo nuove risoluzioni dell’Onu. In Israele ci sono diversi movimenti contro l’occupazione e per la pace, anche se non è chiaro cosa intendano per pace e come vogliano costruirla.. Ci sono attivisti a favore dei palestinesi, ma non sono numerosi. C’è una coscienza politica che però non tiene conto del fatto che quella in cui viviamo è una dittatura.
X.: Ci sono due categorie di cittadini israeliani: chi ha il passaporto europeo e viaggia facilmente, molti sono giovani che da lontano hanno sviluppato una visione catastrofica del paese. E chi non ha i permessi per uscire da Israele e subisce tutto questo dall’infanzia. È più facile per Ruth, che ha vissuto quasi dieci anni a Parigi, avere una certa distanza rispetto a chi è immerso in quella situazione e si sente in trappola. (i Winter Family si sono trasferiti a Tel Aviv due mesi fa, ndr)
R.: La maggioranza degli israeliani dopo aver prestato servizio nell’esercito a 18 anni, continuano a fare i militari un mese all’anno fino ai 40. L’esercito è calato nella società israeliana, per molti è difficile capire che si tratta di una dittatura.
«Jerusalem Plomb Durci» è un forte atto politico, ma voi non vi considerate attivisti. Potete spiegarci meglio?
R. : Per attivismo s’intende fare delle cose. Noi trattiamo un soggetto che ci tocca.
X.: Siamo musicisti e ci occupiamo anche di altro ma non diamo risposte. Molti ci rimproverano di non essere abbastanza pro palestinesi. Ruth in questo lavoro mostra amore e desolazione del paese, ma non proponiamo soluzioni.
R.: Mostriamo cose che conosciamo e che io ho vissuto fin da bambina. Cerchiamo di aprire una finestra verso qualcosa che ha una valenza politica ma non per dare risposte, per questo non mi sento un’attivista. Penso che l’arte impegnata sia problematica perché è al servizio di qualcosa, noi siamo solo al servizio della nostra ispirazione. Anche se si tratta di una creazione artistica politica.
E’ necessario una sorta di esilio culturale per potersi esprimere con più libertà su questi temi?
R.:In Israele c’è una vivace scena underground e di controcultura. A me ha aiutato creare distanza fisica dal paese, è stato utile per concentrarmi sui suoni e capire meglio alcune cose. Potrei definirlo un esilio personale necessario per creare, ma non dovuto a ragioni politiche.
Cosa pensate del boicottaggio culturale nei confronti di Israele?
R.: È una questione molto complicata. Siamo a favore del boicottaggio economico, lo riteniamo importante, ma quello culturale è problematico. Capisco che non si vogliano invitare grandi strutture, ma gli artisti hanno bisogno del sostegno del ministero della cultura per andare in tournée. Per le piccole realtà artistiche il boicottaggio è ridicolo.
X. : Dovremmo chiederci perché boicottare solo Israele e non la Cina, gli Usa e l’Europa.. ma soprattutto perché farlo verso chi cerca di aprire le menti e lo spirito degli altri. Abbiamo amici della scena underground di Tel Aviv che non hanno passaporto per vivere altrove e nel loro quotidiano mettono in atto una serie di pratiche per evitare l’occupazione. Ogni giorno ricevono rifiuti ad esibirsi da parte di gruppi europei e americani che boicottano Israele. Per loro è drammatico. È quasi come fare il gioco del governo israeliano che fa leva sull’idea dell’odio da parte dal resto del mondo. È ingiusto e controproducente per chi cerca faticosamente di organizzare eventi. Dopo anni di boicottaggio il risultato spesso è quello di far scivolare la gente nel nazionalismo.