Sembra che, in cambio di un voto sull’Italicum il premier potrebbe mostrarsi favorevole a modificare la riforma costituzionale prevedendo un Senato eletto dai cittadini.

Quello che sembrava un “paletto” (uno dei quattro fissati dal segretario del Pd nel presentare la riforma) non espiantabile fino a poche ore fa potrebbe quindi saltare, divenendo l’elemento di scambio per l’approvazione di una legge elettorale sulla quale ci sono forti resistenze anche nel Pd. Se questa posizione fosse confermata, la prima domanda da porsi sarebbe se possa ritenersi così indifferente che il Senato sia eletto dai cittadini o no, tanto da poterlo utilizzare come merce di scambio.

Ma intanto vediamo il merito della questione, che presenta un elemento sostanziale e uno procedurale.

Dal primo punto di vista, si può prendere atto del riconoscimento che non c’è nessuna necessità che il Senato non sia eletto dai cittadini. La non elettività di alcune seconde Camere – di solito in contesti federali – non rappresenta l’unico modello né il più confacente ad uno Stato come il nostro in cui il regionalismo verrebbe peraltro molto indebolito dalla stessa riforma in discussione. D’altronde, anche la sottrazione al Senato del rapporto di fiducia con il governo non implicherebbe certamente la necessità di sottrarre ai cittadini la possibilità di votare i propri senatori. Se è vero che un Senato non eletto non può esprimere la fiducia, non è però vero il contrario: anche un Senato eletto può non avere questa competenza secondo previsione costituzionale.

Per tutto questo, se fosse confermata, la riapertura nel merito della questione dovrebbe essere comunque vista positivamente e, una volta riconosciuta la possibilità di avere un Senato eletto dai cittadini, la sua sottrazione risulterebbe ancora più irragionevole.

Dal punto di vista procedurale, invece, la apertura a un reintervento su parti della riforma costituzionale già approvate dal Senato e dalla Camera dei deputati nello stesso testo sembrerebbe archiviare definitivamente la discussione sulla cosiddetta “doppia conforme”, aderendo all’orientamento che espresso da alcuni costituzionalisti (tra i più autorevoli dei quali Enzo Cheli), per cui, in virtù della stretta connessione tra i diversi articoli della riforma costituzionale, e considerato che alcuni tra questi erano stati modificati dalla Camera dopo la approvazione in Senato, nei successivi passaggi parlamentari si sarebbero potute rivedere molte cose, compresa la composizione del Senato stesso, in coerenza con il mutamento delle competenze.

E questo anche per evitare o l’abbandono del vecchio testo a favore di uno nuovo di zecca oppure un percorso più complesso (ma certamente possibile), come quello attraverso il quale per ulteriori modifiche si sarebbero dovuto lavorare sulla combinazione tra norme sulla entrata in vigore (rinviando le parti più discutibili) e norme transitorie (anticipando nel frattempo alcune urgenze come la riduzione del numero dei parlamentari).

Se però ci fosse davvero questa disponibilità al confronto, abbandonando il metodo delle impuntature, si potrebbero affrontare tutte le riforme – elettorali e costituzionali – in modo più equilibrato. Certamente ciò sarebbe possibile con una riforma costituzionale che, contemplando l’elettività del Senato, risulterebbe immediatamente più snella e rapida (oltre che più semplice e ordinata soprattutto in relazione alla approvazione delle leggi), e con una riforma elettorale capace di favorire la vittoria (e poi il governo) di chi ha davvero il consenso popolare, come sarebbe il Mattarellum (nella versione che era adottata per il Senato, senza listini e scorpori).