Il rischio che ad essere travolte dal coronavirus siano anche le finanze dei paesi più solidi si aggira come un fantasma sulla testa delle massime istituzioni europee. Perché quella che si sta materializzando non è una crisi come tutte le altre. Non basta avere i conti in ordine per cavarsela, visto che il disordine è nei rapporti reali, di produzione e di scambio.

Paradossalmente, potrebbe accadere che nel mirino della speculazione finiscano quanto prima anche i titoli dei paesi europei più integrati nella catena internazionale di produzione del valore, a dispetto dell’apparente solidità della propria finanza pubblica.

Un timore che avrà certamente pervaso l’ultima riunione (notturna) del Consiglio direttivo della Bce, durante la quale si è deciso di caricare a pallettoni il fucile del Quantitative easing, ampliandone il raggio di intervento nell’ambito di un nuovo programma di acquisto, concepito appositamente per far fronte all’emergenza. In pratica, Christine Lagarde è passata in una settimana dal «non siamo qui per ridurre gli spread» a «la situazione straordinaria richiede un’azione straordinaria», quindi avanti tutta con la lotta agli spread.

Lo strumento. Il suo nome è PEPP (Pandemic emergency purchase programme) e potrà contare su un plafond di almeno 750 miliardi di euro da qui alla fine dell’anno. Una potenza di fuoco decisamente maggiore rispetto al bazooka di Draghi del 2015. Anche perché a questa cifra bisogna aggiungere i 20 miliardi al mese del programma in corso e i 120 miliardi di acquisti annunciati all’inizio di questo mese di marzo. In tutto, mille miliardi di euro. Non solo.

Questo nuovo programma sarà molto più flessibile di quello precedente. Non è prevista una soglia massima di acquisti mensili e non sarà rispettata la proporzione tra acquisti e capitale della Bce posseduto dai vari paesi membri (capital key). I soldi, ferma restando la base di partenza, andranno insomma dove sarà necessario. Saranno della partita anche i titoli greci, finora tenuti in quarantena per la loro presunta tossicità, e le obbligazioni a breve termine emesse direttamente dalle imprese. I risultati attesi.

Con questa operazione Francoforte intende mitigare l’impatto che la pandemia sta avendo sulle borse e il mercato dei titoli di stato. E’ un paracadute per le obbligazioni statali e una fonte di ossigeno per il settore privato e quello bancario (soldi freschi che sostituiscono titoli illiquidi a rischio di svalutazione). I primi effetti, infatti, si stanno già vedendo dal lato dei rendimenti dei titoli più esposti, come quelli italiani (lo spread tra i nostri Btp e i Bund tedeschi si è ridotto di 100 punti base da un giorno all’altro), mentre le piazze europee provano a recuperare dopo i tonfi storici dei giorni scorsi. Una piccola iniezione di fiducia, che, per il momento, mette al riparo la moneta unica da pericolosi scossoni.

Il caso italiano. L’Italia non è sotto i riflettori del mondo soltanto per il numero di contagi (e di decessi) da coronavirus. A far paura sono anche i suoi fondamentali macroeconomici e il suo quadro finanziario (siamo già in recessione tecnica). Non c’è dubbio che ad accelerare la decisione della Bce di scendere in campo pesantemente sia stata anche l’impennata dei rendimenti dei nostri Btp (spread fino a 320 punti base), nonostante l’acquisto a ritmo sostenuto degli stessi da parte di Bankitalia negli ultimi giorni. Il timore degli investitori è che quest’anno il Pil italiano possa far registrare un crollo senza precedenti, mettendo a rischio la sostenibilità del debito.

Le stime oscillano tra un -3,4% e un -6%, con un rapporto debito/pil che potrebbe schizzare fino al 160%. Meglio intervenire subito, allora, per evitare un’avvitamento della situazione.

I limiti dell’operazione. La montagna di soldi che la Bce ha messo sul piatto non andrà a finanziare la costruzione di ospedali, infrastrutture viarie, ferrovie, scuole o case popolari. Né contribuirà a creare nuovi posti di lavoro e a garantire un reddito a chi oggi non ce l’ha. I titoli che vengono acquistati sono quelli che hanno in pancia le banche. Non c’è alcun finanziamento di spesa pubblica aggiuntiva, per essere chiari.

Lo schema rimane quello di sempre. Eppure la situazione, del tutto inedita ed eccezionale, richiederebbe un salto di qualità nella politica economica europea. Negli Stati Uniti e ad Hong Kong il trasferimento diretto di denaro ai cittadini non fa più scandalo. In Europa, invece, siamo ancora alla discussione sugli Eurobond.