La critica inglese The Guardian in testa) lo ha stroncato, e la cosa poteva essere prevedibile visto che a narrare l’amatissima principessa, forse nessuna così adorata come lei, è un regista tedesco (nientemeno), Oliver Hirschbiegel, e neppure la protagonista, seppure magnifica attrice lynchana come Naomi Watts, è inglese. Ma stavolta la gelosia nazionale non c’entra. Diana, qui col sottotitolo di «La storia segreta di Lady D.» tanto per attizzare ancora di più il risvolto gossip, è proprio un brutto film, e nulla ci dice di Diana Spencer, moglie di Carlo d’Inghilterra e madre dell’erede al trono William, che i suoi occhi blu l’eleganza fashion con cui minava il protocollo reale, hanno reso un’icona di stile in tutto il mondo. Hirschbiegel non utilizza nemmeno la «licenza» romanzesca per interpretare il personaggio, i suoi conflitti e la sua seduzione, ma confeziona il film assecondando le peggiori abitudini vigenti della celebrity culture, che tende a sminuire se non a infangare i propri soggetti.

E questo anche se Diana non è una biopic, ma si concentra sugli ultimi due anni di vita della principessa, dal divorzio con Carlo a quel 31 agosto del ’97, quando inseguita dai paparazzi la mercedes con Diana e Dodi al Fayed, si schianta a a Parigi, nella galleria del Pont de l’Alma. Dall’appartamento privato del Ritz, la storia torna indietro, alla residenza di Diana, che da anni è di fatto separata da Carlo, e nell’apparenza di lusso e privilegi si scontra duramente con il Palazzo per essere più libera, vivere la su vita, vedere i propri figli, che può incontrare solo una volta ogni cinque settimane.

Non le hanno mai perdonato quella separazione, una lacerazione terribile per il protocollo, e lei è pur sempre la madre dell’erede al trono – quel principe William che in questi mesi insieme alla consorte Kate ha a sua volta infranto le rigidità reali conquistando dal matrimonio alla nascita del royal baby i cuori degli inglesi.

Finché nella malinconica solitudine della donna non entra il cardiochirurgo pakistano Hasnat Khan. È amore a prima vista, folle e impetuoso, che deve però combattere con i flash della fama di lei, cosa che infastidisce lui perché lo deconcentra dal suo delicatissimo mestiere. Ma soprattutto non piace alla famigliona pakistana che gli impone l’aut aut, mamma in testa, e il ragazzone ovviamente non se lo fa ripetere: nonostante sbandieri una libertà dalla tradizione sempre pakistano è …

Lei soffre, impazzisce, lo perseguita con telefonate anonime e appostamenti, finché si consola col ricco Dodi al-Fayed, che nel film diviene o l’uomo dello schermo, usato da Diana per ingelosire l’impossibile Hasnat. Diciamo che è la sola interpretazione azzardata da Hirschbiegel per i suoi personaggi nella sceneggiatura affidata a Stephen Jeffreys. Per il resto, a vedere il suo film, non capiamo il motivo di tanto accanimento mediatico intorno a una figura che appare piatta, senza fascino, mistero, conflitto, lati oscuri se non quelli dei suoi capricci e di una sofferenza lasciata a qualche monologo davanti allo specchio. I cui gesti, compresa la filantropia che la fa viaggiare intorno al mondo impegnandosi in campagne scomode per la corte tipo quella contro le mine antiuomo, nascono dal desiderio di conquistare Hasnat.

E così l’amore, e la sua perdita, che trasforma Diana in una specie di Adele H, seguono un protocollo banale, privo di passione e di invenzioni. Hirschbiegel copia&incolla le sue informazioni, tipo voce di wikipedia, ma è evidente che non è interessato affatto alla sua protagonista, e al mondo che le ruota intorno. Di inventare il suo personale mistero non ha voglia, o non è capace, e così lo banalizza con un certo accanimento. Perché in tanti artisti, intellettuali, gente famosa e non vennero conquistati da Diana Spencer è davvero un’altra storia.