È possibile dire, senza tema di smentita, che Pier Paolo Pasolini fu assassinato per la lista dei 120 nomi che serbava nella sua cassaforte. Essi costituivano il corpus essenziale della ragione che ne decretò la fine. Ben conosciamo l’incipit del suo j’accuse: «Io so…» seguìto da uno scorato «ma non ho le prove». Pasolini le prove le raccolse, come intuirono i suoi persecutori che ne ebbero materialmente contezza a ridosso della sua morte: nella lista responsabili dei servizi segreti, alti ufficiali dell’Arma, personalità di spicco a vario titolo coinvolti in attentati alla legittimità dello Stato repubblicano nonché collusioni con la Cia.

Gli esecutori materiali dello scempio s’impossessarono del mazzo di chiavi trovato nella sua auto e, dopo il massacro, aspettarono con pazienza che ne venissero celebrati i funerali. La casa di via Eufrate rimase così sguarnita per giorni. Un ladro si introdusse nottetempo in casa, con tutta calma, aprì la cassaforte e ne trasse tutto il suo contenuto: i gioielli di Susanna e i documenti, molti documenti. Pare che il compenso per il ladro, e per il suo silenzio, fossero proprio i preziosi ai quali il commando non era interessato.

Né la porta d’ingresso né la cassaforte – debitamente richiusa – presentavano segni d’effrazione e Graziella Chiarcossi denunciò il furto dei gioielli, senza sapere la consistenza dei documenti trafugati. Quando asserisce che, secondo lei, non esisteva alcun Appunto 21, è perché non è al corrente della mole di carte serbate a doppia mandata. E però si tradisce con un lapsus nell’intervista rilasciata a «La Repubblica» (30/10/2015) allorché dice che il cugino era felice quando aveva tra le mani le 600 pagine di Petrolio: in effetti, a noi ne sono pervenute 566, pagina più pagina meno. Tra quei fogli c’è la lista dei 120 nomi e copia dell’App.21 ma non solo: c’è un dossier segretissimo e scottante relativo ad un notabile Dc.

C’è una cosa sulla quale non si è riflettuto mai abbastanza. Pasolini scrisse al suo amico Moravia una lettera d’accompagnamento al manoscritto. Bene, nell’archivio Moravia non c’è traccia né del manoscritto né della lettera. Strano. Sappiamo che Pier Paolo spesso demandava alla cugina Graziella il disbrigo di faccende minime: fotocopiatura, invio di corrispondenza. Quindi, delle due l’una: o dimentica di far spedire lo scartafaccio o se ne dimentica Graziella.

Figura chiave di questa storiaccia è Antonio Pinna . Antonio Pinna è per Pasolini una sorta di mentore, lo accompagnerà al Pincio in occasione della Festa della Fgci, è una sorta di Virgilio linguistico, colui che – insieme a Sergio Citti- lo introdurrà ai meccanismi del vernacolo. Orbene, si vuole considerare Antonio Pinna morto a ogni costo. La richiesta di un certificato di morte risulta sempre negletta, non può essere rilasciato.

Un motivo c’è: trattasi di morte presunta e, come tale, non può esserci certificazione quale che sia. Prelevato al suo domicilio il giorno dopo la morte di Pasolini, davanti ad una moglie tutt’altro che costernata (?), da due signori descritti come «distinti ed eleganti», Pinna non farà più ritorno. Fino a tre anni dopo allorché verrà fermato a Roma da una pattuglia dei Vigili urbani e sanzionato perché ha la patente scaduta! Scompare di nuovo. Il suo ozio «capuano» viene individuato in sud America, forse in Brasile. Ma ecco che, vent’anni fa, Antonio Pinna viene riconosciuto a Tenerife da Franco Procaccini, un gommista nel frattempo deceduto (il 1° maggio di quest’anno ma il figlio ha confermato la circostanza).

Insomma, un testimone oculare viene lasciato libero di scorazzare per il globo terracqueo senza che nessuno lo metta in sicurezza per testimoniare contro gli assassini dello scrittore. E viene spontaneo chiedersi: perché, nel ’78, i Vigili urbani che gli contestavano l’infrazione non avevano un mandato di cattura? Semplicemente perché Pinna non è stato mai un ricercato.

L’impalcatura dei due carabinieri che inseguono Pelosi e lo fermano sul lungomare di Ostia perché contromano è franata con le dichiarazioni di Graziella Chiarcossi («La Repubblica», ibidem) la quale dichiarò che agenti di polizia suonarono alla sua abitazione a notte inoltrata, tra il primo e il 2 novembre, cercando lo scrittore. La sua auto era stata ritrovata sulla via Tiburtina. La verità è che l’auto fu lasciata con entrambi gli sportelli aperti e questo, ovviamente, destò l’attenzione degli agenti. E fu trovata tra via Facchinetti e via Cervesato: la traversa successiva è via Diego Angeli, quella che portava alla roulotte dei Mastini.

Perché le autorità non hanno mai ascoltato Chiarcossi per fare luce su quello strano rinvenimento in aperta contraddizione con i dati ufficiali? Pelosi era stato fermato sì da Cuzzupé e Guglielmi ma all’Idroscalo(lo abbiamo già scritto su queste pagine). Uscito dallo sterrato con Mastini alla guida dell’Alfa di Pier Paolo, Pino Pelosi chiese di fermare per conati di vomito: per l’orrore e per una mangiata luculliana del giorno prima (non sappiamo in che ordine d’importanza). Tutta l’azione era stata monitorata e Pelosi andava fermato subito come maggior indiziato: da zimbello che aveva portato gli assassini sul luogo del delitto era divenuto in poche ore l’agnello sacrificale ideale.

L’indomani continuò la sceneggiata. Quello che fa su è giù davanti al cadavere pietosamente ricoperto da un lenzuolo imbibito del sangue del poeta, sembra a tutta prima un agente in borghese, e in effetti lo è, ma viene riconosciuto da un coacervo di malavitosi tutt’ora viventi come «er Ciancia», alias «Little Tony» per via di un ciuffo malandro che gli orna la fronte. È un agente fellone, infiltrato nella malavita trasteverina, al soldo del Gen. Santovito per alcuni «extra» e risponde al nome di Mario De Sanctis. Lo sapevamo morto per un regolamento di conti, oggi sappiamo invece che è vivo, in pensione ma con altro nome, quello vero (che non faremo per il momento).

Tornando alla teoria dei cerchi concentrici, i neofascisti utilizzati per massacrare Pasolini, sono forse stati invogliati per lo sgarbo che lo scrittore avrebbe fatto alla memoria di Salò? Scrive Vinciguerra dal carcere di Opera: «È mia opinione che il passo fatale compiuto da Pasolini sia stato il suo ultimo lavoro, nel quale non c’è solo l’offesa alla Rsi, ma a tutte le forze armate. Cantare la canzone della Julia in Grecia, «Sul ponte di Parati», durante un’orgia poteva evitarlo (corrispondenza privata del 12/2/16)». Non va dimenticato che il nome di PPP già figura in una lista di proscrizione di persone da arrestare stilato dal gen. De Lorenzo nel progetto di colpo di stato del ’64.

Minimizzare in questa storia il contributo di alcuni elementi che, due anni dopo, costituiranno la Banda della Magliana è da anime belle. È notorio che il Clan dei Marsigliesi si avvaleva dei servigi di quelli che, anni dopo, li soppianteranno. Non abbiamo, al momento, prove documentali del loro coinvolgimento ma che siano presenti all’Idroscalo, la mattina del ritrovamento del cadavere, Barbieri, De Selis e, soprattutto, Abatino fa riflettere. Se non c’è coinvolgimento diretto c’è comunque il loro utilizzo quantomeno in chiave di guardianìa, Abatino guarda verso il cadavere esattamente come Maurizio Tramonte viene ripreso a Brescia in piazzale della Loggia con lo sguardo rivolto al cadavere di Alberto Trebeschi, una delle vittime dell’attentato (fonte: G.Giovannetti, Malastoria, Effigie). Pochi giorni prima di morire, Pasolini viene affrontato da tre persone che parlano un perfetto italiano ma con accento francese. Questo incontro terrorizzerà lo scrittore, reazione insolita in una persona di forte temperamento come Pier Paolo (fonte: Giovan., ibidem). Inoltre Pasolini aveva chiesto ad Attilio Bertolucci, direttore de «Il gatto selvatico», house organ dell’Eni, di introdurlo negli ambienti dell’Ente. Aveva così incontrato Mario Reali, dirigente Eni, e a questo Giuseppe Ratti si rifarà per sapere con apprensione «quanto può saperne P. dei fatti dell’Eni»…

Negli anni ’60 apre a Roma la Permindex, nel quartiere dell’Eur, società commerciale dietro il cui paravento la Cia si cela per attività politiche e anti rivoluzionarie. La Cia, ovviamente, ha sempre smentito. La Permindex distava da via Eufrate un quarto d’ora a piedi a passo sostenuto