Questa «sporca mezza dozzina» riunisce jazzisti che sposano un’ottima padronanza tecnica ad una proposta sonora che si radica nel neo-hardbop ma lo trascende. In questo senso la figura del pianista Claudio Filippini ha un ruolo chiave, anche a livello compositivo: basta sentire il suo Haze che apre l’album con una forza cinetica irresistibile per capire quale è la «lunghezza d’onda». Non è da meno il seducente Flying Horses sempre di Filippini che, come autore, è affiancato dal batterista Lorenzo Tucci e dal sassofonista Daniele Scannapieco. Il sestetto si completa con la tromba di Gianfranco Campagnoli, il trombone di Roberto Schiano ed il contrabbasso di Tommaso Scannapieco: una sezione fiati policroma ed una ritmica trascinante. I Dirty Six hanno registrato all’Elios studio di Castellammare di Stabia e nell’album c’è un calore mediterraneo: del Sud alcuni dei musicisti sono originari, una zona d’Italia che ha sempre donato al jazz del Bel Paese artisti ispirati e creativi. Tucci e Scannapieco, ad esempio, partiti dall’esperienza degli High Five – legata a modelli afroamericani – nel tempo sono cresciuti percorrendo strade personali ed autonome.