C’è una cosa che la moda teme più di tutte le altre, la banalità. Eppure oggi sembra conviverci amabilmente. Banalizzare per la moda vuol dire ridurre se stessa a un livello intellettuale che rappresenta la sua negazione. Infatti, per sopravvivere ai cambiamenti culturali e sociali la moda ha sempre insistito per la comprensione dei suoi codici. Tanto è vero, che il sistema della moda che conosciamo noi è nato per esprimere un sistema di potere «à la moderne», da dove, per abbreviazione, nasce la parola «mode» alla corte di Luigi XIV a Versailles. In seguito, la moda si è adeguata e ha gestito tutti i cambiamenti e le rivoluzioni dell’epoca moderna, a partire da quella francese del 1789 fino a quella bolscevica del 1917. I sovietici, più furbi dei giacobini, incaricarono Kazimir Malevic e la sua Associazione degli Artisti di Mosca di creare un comitato per la nascita dell’abito della rivoluzione, tanto avvertivano la necessità di una corrispondenza tra la moda e la società che si doveva costruire.

Evidentemente, l’attuale rincorsa alla generale banalizzazione dei significati della moda è frutto dei tempi. Preso atto che oggi le rivoluzioni non sono possibili e che a informare la società è rimasta solo l’indimostrabile unanimità dell’opinione espressa sui social network, è chiaro che anche dalla moda si pretende un discorso comprensibile da tutto l’indistinto magma della rete e non in nome del superiore rispetto dell’utente ma di un effetto sull’aumento dei consumi.

Così, i discorsi sulla moda si sono spostati dai concetti alle opinioni momentanee di autoproclamati esperti della modernità. Quelli, per esempio, per i quali «è necessario un coinvolgimento digitale» (sic!) delle aziende, dei marchi e degli stilisti e altri che, in nome della riproducibilità in serie dei (pochi) contenuti, hanno cantano le lodi della cosa più banale degli ultimi anni, quel «see now, buy now» che è morto prima di nascere nel momento in cui si è scontrato con l’impraticabilità di vendere il giorno dopo quello che sfila il giorno prima. Altri ancora dichiarano la coolness della copia non dichiarata perché, con il bombardamento dell’immagine ripetuta sui social network, dell’originale non c’è più traccia nella memoria collettiva. Quante banalità!Questo parlare del nulla produce la banalizzazione corrente perché rende incomprensibili e illeggibili i concetti di base del linguaggio della moda.

Infatti, durante la scorsa Fashion Week a Milano due discorsi antitetici, ma entrambi portanti della moda di questi anni, sono stati interpretati nella semplificazione al ribasso del loro significato. Da una parte, quello di Alessandro Michele per Gucci, che ha lavorato sull’effetto dell’inaspettato che produce lo stupore necessario alla sorpresa della proposta, è stato letto come la rincorsa massimalista al gradimento del pubblico e ridotto a fenomeno modaiolo e passeggero. Dall’altra il discorso sulla «semplicità» di Miuccia Prada è stato banalizzato e definito «ritorno del minimalismo» quando invece è un metodo che facilita la lettura della complessità socioculturale di oggi. Distanti tra loro ed entrambi molto lontani dallo strutturalismo di Demna Gvasalia, lo stilista che oggi va per la maggiore e quindi è copiatissimo, ma che a sua volta non fa altro che copiare, indisturbato dalla smemoratezza diffusa, la destrutturazione di Martin Margiela degli Anni 90, Gucci e Prada tentano di riportare la parola in un mondo che, se continua così, farebbe bene a cambiare definizione: da sistema della moda a sistema del vestito.

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