Centoventitre miliardi di euro, quasi 9 punti di Pil, è il contributo degli immigrati e dovrebbero essere una buona ragione per adottare delle politiche economiche, sociali e industriali coerenti per integrare gli immigrati che arrivano da paesi terzi. L’invecchiamento della popolazione italiana, legata al buon funzionamento del welfare state e alle politiche pubbliche, con tutti i problemi di sostenibilità demografica e previdenziale, suggerirebbe una politica economica coerente, ma il dibattito politico è piegato su argomentazioni e posizioni che sfidano il buon senso. In particolare, è incomprensibile la sottovalutazione del contributo degli immigrati in termini di sostenibilità dei principali istituti di welfare state. La struttura demografica degli immigrati, sono sostanzialmente giovani, permette nel lungo periodo un guadagno netto in termini di spese sanitarie e previdenziali. Infatti, le tasse che pagano all’erario sono maggiori rispetto ai servizi che effettivamente ricevono. Nel lungo periodo l’immigrazione (Munz-Werding), gioca un ruolo determinante. Pensate all’attuale dibattito sulla riforma previdenziale.

L’immigrazione concorre a risanare i conti pubblici previdenziali, e senza questi lavoratori sarebbe (più) difficile pagare le pensioni degli italiani. Il 10% del totale dell’occupazione è rappresentato da stranieri è quindi fondamentale in termini di crescita economica, sostenibilità della spesa pubblica e per garantire, nel lungo periodo, un adeguato sistema di assicurazione sociale. Se non ci fossero dovremmo chiamarli e incentivarli. Ma la crisi apre dei problemi inediti. Due milioni e passa di occupati stranieri si concentrano in attività scarsamente qualificate e con rare opportunità di mobilità verso l’alto, indipendentemente dal profilo formativo. Inoltre, la concentrazione degli immigrati nei servizi, che corrisponde al 50% del loro contributo in termini di Pil, manifesta un problema di struttura. Ci riferiamo alle badanti e alle colf che svolgono una attività che diversamente non sarebbe svolta dal servizio pubblico. Solo il 20% arriva dall’attività manifatturiera e spesso per prestazioni che sarebbero difficilmente recuperabili nel mercato del lavoro domestico. In altri termini, non solo gli immigrati colmano un vuoto nel mercato del lavoro, ma, come i giovani laureati vivono lo stesso problema: la domanda di lavoro delle imprese italiane è incoerente con la formazione maturata. Se pensiamo allo standard del lavoro immigrato e ai salari percepiti, significativamente più bassi della media nazionale – il reddito mediano delle famiglie immigrate è solo il 56% di quello degli italiani -, possiamo ben sostenere che il contributo degli immigrati alla crescita del Pil potrebbe essere superiore se solo avessimo una economia prossima a quella dei Paesi con cui vorremmo fare concorrenza.

Dobbiamo sfatare un altro mito: quello del lavoro sommerso. Siamo proprio sicuri che il lavoro immigrato sia responsabile delle attività sommerse o illegali? La pubblicistica al riguardo è abbastanza chiara: il ruolo degli immigrati nel sistema produttivo è legato alla struttura economica delle aree di arrivo; nelle regioni in cui prevale l’occupazione regolare gli immigrati sono per lo più occupati regolarmente, viceversa dove prevale l’occupazione irregolare gli immigrati lavorano per lo più in modo irregolare. Quindi è la struttura produttiva che sceglie un certo tipo di lavoro. La presenza del lavoro sommerso, i bassi salari, la bassa produttività del sistema produttivo sono lo specchio fedele delle politiche reclamate. Lasciamo quindi da parte le solite e noiose polemiche e proviamo a ragionare in termini di politica economica, cercando di dare un orizzonte internazionale a un sistema economico che ha perso la cultura imprenditoriale.