In Terraferma veneziana, l’industria chimica aveva messo radici subito dopo la seconda guerra mondiale, diventando negli anni ’60 miraggio di benessere economico.

A Porto Marghera, l’esercito operaio di Eni e del Gruppo Montedison era arrivato a contare trentamila fra uomini e donne. Mestre, cinque chilometri distante, respirava la stessa aria avvelenata, faceva la stessa vita grama, condivideva le stesse lotte, pagava uno sviluppo urbano senza regole.

Le industrie dei veleni iniziano la loro parabola discendente alla fine degli anni ’80, trascinando anche Mestre nel declino e nello spopolamento, ma costringendola così a ripensarsi. Con l’ultimo decennio prendono il via il restauro e la trasformazione in isole pedonali di Piazza Ferretto, la piazza principale, e di buona parte del centro storico; il recupero del Teatro Toniolo, la realizzazione di una linea tranviaria, dell’ospedale Sant’Angelo, del Parco San Giuliano. S

ospesa com’è tra la Serenissima e il litorale adriatico, Mestre continua comunque a rimanere un luogo ‘a parte’.

Nel 2005, Fondazione di Venezia decide di affidare alla Polymnia, sua società strumentale, il compito di pensare e realizzare un progetto che vale centodieci milioni di euro. Si chiamerà M9, avrà il suo fulcro in un museo dedicato alla storia italiana del ’900, a questo allude il nome, sarà punto di riferimento culturale e motore di crescita sociale ed economica per Mestre e il territorio. Nelle immediate vicinanze di piazza Ferretto viene acquisito un intero isolato di edifici. Vince il concorso internazionale lo studio Sauerbruch Hutton di Berlino, che riconvertendo sette delle quattro strutture e pensandone tre ex novo, disegna un complesso costituito dal museo e da spazi per attività commerciali e centri direzionali.

M9 apre il primo dicembre 2018. Più di ventimila tessere ceramiche, tredici i colori, rivestono le architetture sobrie degli esterni, riproponendosi anche negli interni e lungo lo scalone che conduce all’ingresso del museo: il primo in Italia totalmente multimediale, dove ogni oggetto si crea e si ricrea grazie a tecnologie che utilizzano 3D, realtà aumentata, schermi e monitor interattivi, ologrammi…

A presiedere il comitato scientifico e coordinare la folta squadra di consulenti e curatori, il professor Guido Guerzoni, project manager di M9, aveva chiamato nel 2007 un grande uomo di cultura, Cesare De Michelis, anima della Marsilio Editore. Pochi mesi prima dell’inaugurazione, De Michelis si arrenderà a una lunga malattia.

Suo uno dei saggi introduttivi alla guida del museo. Un passaggio recita «I visitatori non vedranno una collezione rappresentativa di opere che documentano episodi della creatività umana, ma, ricorrendo alle straordinarie opportunità offerte dalle nuove tecnologie, si confronteranno con un’immagine pazientemente ricostruita delle trasformazioni che hanno caratterizzato l’inveramento della modernizzazione del nostro Paese…».

Otto sezioni distribuite su due piani percorrono il ’900 per arrivare al 2014: Come eravamo, The Italian Way of life, La corsa al progresso, Soldi, soldi, soldi, Guardiamoci intorno, Res Publica, Fare gli italiani, Per farci riconoscere. Il nero assoluto le circonda. Ancora De Michelis «Lo sforzo di mettere insieme percorsi tematici accanto a un grande percorso cronologico non so se funzionerà da un punto di vista espositivo, ma da un punto di vista concettuale e logico mi sembra la strada più rapida per rendere evidente la complessità di quello di cui stiamo parlando».

Nel buio e nel silenzio, adulti, ragazzi, bambini, seguono la storia e le storie del Secolo Breve spinti dal richiamo delle ‘straordinarie opportunità offerte dalle nuove tecnologie’. Risulterà magari di qualche amarezza constatare che, soprattutto guardando alle nuove generazioni, nessun testo riuscirebbe a far comprendere meglio delle tre gigantesche immagini fotografiche animate di Foto ricordo, le trasformazioni anche fisiche della nostra popolazione dal 1901 al 2011. E che lo stesso vale per i flussi migratori da e verso l’Italia visualizzati tramite infografica in movimento e narrati nei video delle Valigie dei migranti; per i consumi, i costumi e gli stili di vita, spiegati grazie a ricostruzioni tridimensionali e proiezioni panoramiche, che tornano all’interno della sezione La corsa al progresso, arricchita nelle sue quattro aree da tablet e monitor interattivi, ologrammi, materiali d’archivio; per i dispositivi leap motion che consentono di provare a verniciare un’auto nella Fabbrica robotica; per le ricostruzioni stereoscopiche, le riprese da droni a 360 gradi, i mutamenti dei paesaggi visti attraverso la realtà virtuale dell’oculus, magici strumenti della sezione Guardiamoci intorno. L

’amarezza di cui sopra trova ulteriore ragione per stemperarsi quando, sotto il titolo di Res Publica e il sottotitolo Lo stato, le istituzioni, la politica, il museo affronta l’Italia delle due guerre mondiali, del nazismo e della Resistenza, della monarchia e della repubblica nata dal referendum, del terrorismo e della criminalità organizzata, della corruzione diffusa. Un periodo di estrema complessità, che vide sovente protagonista la piazza, L’arena Politica dell’area 6.6.

Il visitatore entra in uno spazio chiuso da uno schermo circolare. Davanti a lui, dentro una scatola nera, compaiono in successione gli ologrammi di quattro attori che, truccati con buona somiglianza, ripropongono i discorsi storici di altrettanti uomini politici: Palmiro Togliatti, Aldo Moro, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi. Sullo schermo, le piazze vedono sfilare i cortei operai, studenteschi, femministi; sono le macerie delle stragi di stato; il sangue delle manifestazioni sfociate in tragedia, i morti del governo Tambroni, 1960, e del G8 di Genova, 2001. La diffusione dell’idioma nazionale, l’evolversi dell’istruzione scolastica, l’importanza dei dialetti sono i temi di Fare gli italiani; i valori della nostra cultura, i caratteri e gli stereotipi, le religioni e la religiosità, l’idea preconcetta di razza, i contenitori di Per farci riconoscere.

M9 è già stato oggetto di polemiche: troppo virtuale, a volte sbilanciato politicamente, altre foriero di una visione edulcorata degli avvenimenti.

Lasciamo a De Michelis la risposta «Quello che stiamo cercando di fare è rifondare una cultura civile. Possiamo spiegare con M9 come penetrare questo groviglio, questo ingorgo di questioni, che caratterizza il Novecento e come provare a dipanarle una a una».

Quel groviglio, quell’ingorgo che appartengono a tutti noi, figli del Novecento e figli del Duemila.

UN PROGETTO INNOVATVO, INTERATTIVO E IN CONTINUO AGGIORNAMENTO

Questo l’M9 in cifre. Sette corpi di fabbrica, due piani museali su 2610 metri quadri e un terzo piano di 1400 metri quadri dedicato alle mostre temporanee, un auditorium/ cinema di 280 metri quadri con duecento posti a sedere, quattro spazi per gli eventi; 2485 metri quadri di superficie per parcheggi, vani tecnici e depositi.

Questi, in cifre, i materiali visivi e sonori dell’M9: seimila foto, quattrocento file audio, sessanta installazioni multimediali e interattive, 820 video e dieci ore di filmati montati; cinquecento riproduzioni iconografiche di manifesti, quotidiani e periodici. Centocinquanta gli archivi contributori: biblioteche, comuni, consorzi, fondazioni, musei, agenzie fotografiche, privati, statali.

Dal 2012 al 2015, quarantadue esperti (sociologi, economisti, storici, demografi, politologi), con il coordinamento di Cesare De Michelis, hanno partecipato all’elaborazione dei contenuti. Tra di loro Chiara Saraceno, Giuseppe De Rita, Alberto Abruzzese, Irene Bignardi, Gianni Toniolo (anche membro del Comitato Scientifico), Francesca Ghedini. Sugli allestimenti ha lavorato il gruppo che fa capo a Valerio Zingarelli, già responsabile delle tecnologie RAI.

Successivamente, i curatori di sezione, due per ciascuna, tre quelli di Guardiamoci intorno, hanno costruito una traccia concettuale, presa poi in carico dal Team di Guido Guerzoni, ricercatore presso l’Università Bocconi.

Ai quattro esperti è spettato il compito di redigere i testi e selezionare il materiale iconografico e audiovisivo, in stretta collaborazione con gli studi cui si deve la progettazione e la realizzazione delle sezioni: Carraro Lab, Clonwerk – Limiteazero, Dotdotdot, Karmakina – Engineering Associates, Nema FX. Un compito che continuerà, perché altra caratteristica dell’M9 è il suo continuo aggiornamento.

Quante pagine sono state finora scritte; quanti i filmati, le fotografie, i documenti visionati; quanti i grafici, le tabelle, le sintesi numeriche? Nel Team, Giuseppe Saccà, laureato in storia contemporanea, svariate esperienze professionali in Italia e all’estero, si è fatto carico non certo lieve della sezione Res Publica.

«Per uno storico, abituato a ragionare su archivi e biblioteche, risulta un po’difficile immaginare la traduzione del proprio lavoro nel linguaggio delle installazioni tecnologiche. È stato quindi molto stimolante dovermi confrontare con chi, oltre ad avere quelle specifiche competenze, esprimeva un personale gusto estetico e narrativo. La selezione dei materiali è avvenuta attraverso il dialogo quotidiano, particolarmente intenso nel caso dell’area dell’Arena, il punto focale di Res Publica secondo la traccia del curatore Marco Gervasoni».

Rigore storico versus creatività digitale all’ennesima potenza?

«Avevo già curato altre mostre, mai però con un uso così estremo della tecnologia che, pur seguendo il contenuto, giocava nel caso specifico un ruolo fondamentale. Le faccio un esempio: il filmato che dentro l’Arena racconta le piazze nelle diverse fasi del ’900 ha una durata di venti minuti. Dal mio punto di vista sarebbe potuto andare avanti tre ore, ma i visitatori avrebbero faticato non poco a digerirlo. Quindi, con lo Studio Karmakina, si è deciso un minutaggio massimo, e all’interno di quel minutaggio sono avvenute le vari ripartizioni».

Riesce a fare un conto delle pagine che ha scritto nei due anni dedicati a M9?

«L’ho perso, mi creda». Paolo Ranieri, dello studio Karmakina – Engineering Associates, è stato project manager e, con altri due colleghi, art director delle sezioni Res Publica e Come eravamo, come siamo «In un lavoro di questo tipo l’importante è usare più registri contemporaneamente: didattico, narrativo, emozionale, per permettere al visitatore di entrare dentro la complessità degli argomenti. Le modalità realizzative devono quindi comportare soluzioni scenografiche, teatrali, cinematografiche, sonore».

L’esempio di Ranieri è di nuovo l’Arena

«L’obbiettivo era di coinvolgere lo spettatore facendogli rivivere le piazze italiane, quasi un’immersione. Ci siamo riusciti mettendo al centro l’ologramma degli uomini politici che parlano; intorno, a 360 gradi, le immagini delle folle, e una sonorizzazione in 3D che restituisce le grida e i rumori». Si possono affrontare argomenti serissimi giocando «Com’eravamo, come siamo offre l’installazione Misuriamoci! che chiede al visitatore di rispecchiarsi in un monitor. Il volto, catturato da una speciale telecamera, va a sistemarsi sulla figura di personaggi di varie epoche del ’900. Un gioco che porta a capire le trasformazioni fisiche degli italiani, mettendosi, fra i tanti, nei panni di un contadino degli anni ’20».

Marco Biscione è un direttore abituato alle scommesse. La più recente, prima di approdare all’M9, quella del MAO, il Museo di Arte Orientale di Torino. Grazie a mostre in tema con le culture dell’area, incontri e corsi, Biscione lo ha ’aperto’ al grande pubblico.

Un’altra scommessa, direttore?

«M9 è un museo fortemente innovativo, e quindi rappresenta un’esperienza professionale unica. Perché, del museo, cambia in maniera radicale la prospettiva: per il pubblico e per il direttore, che con il pubblico deve rapportarsi in maniera completamente nuova. M9, poi, è appena nato. Se mi passa il paragone, è ben diverso prendere con sé un cane adulto, o seguirlo fin da cucciolo».

Facile prevedere che tanta tecnologia digitale attirerà i giovani. Ma non rischia di costituire un limite per le generazioni meno ‘verdi’?

«Un dato interessante, scaturito dai questionari di un campione di visitatori prima dell’apertura ufficiale e di quelli delle settimane iniziali, è che l’ottantacinque per cento si è dichiarato molto soddisfatto e raccomanderà il museo a parenti e amici. Il dato riguarda una percentuale significativa di persone in età più avanzata».

Giovani, meno giovani e anziani, è bene comunque sapere che il tour dell’M9 richiede da un minimo di tre a venti ore. Nel secondo caso, tenete d’occhio gli orari.

L’Italia dei fotografi

Per informazioni, m9digital.it. Utile e ben fatta la app M9 per dispositivi Android e IOS, in versione italiana e inglese.

La guida, edita da Marsilio, non è una guida vera e propria, quanto piuttosto una raccolta di scritti che ricostruiscono l’idea, la nascita e la realizzazione del museo, accanto alle motivazioni di carattere economico e sociale.

Da leggere e rileggere il testo di De Michelis, M9 e la rigenerazione urbana di Mestre, nella sua brevità analisi acuta sulle contraddizioni del ’900 e le difficoltà di arrivare a comprenderlo davvero.

Fino al 16 giugno, lo spazio del terzo piano ospita la mostra L’Italia dei fotografi, 24 storie d’autore. Curata dal critico Denis Curti, propone oltre duecento immagini come racconto del nostro Paese durante il secolo scorso. Il contributo di ciascun artista nasce da un lavoro specifico.

Letizia Battaglia è presente con La mafia a Palermo, Gianni Berengo Gardin con Morire di classe, Mimmo Jodice con Vedute di Napoli, Luca Campigotto con Venetia Obscura. Sono storia della fotografia gli scatti del re dei paparazzi Tazio Secchiaroli, Tazio Secchiaroli e Federico Fellini, e quelli di Gabriele Basilico, Milano. Ritratti di Fabbriche 1978-1980 (lds)