L’annunciata batosta si è puntualmente abbattuta sull’improvvisato candidato giallorosso dell’Umbria e sull’alleanza Pd-M5S-Leu che si proponeva di governarla. Solo i duri d’orecchi sembrano accorgersi oggi che non c’è più l’Umbria rossa di una volta, scoprendo così la classica acqua calda. Più semplicemente, dopo l’avvenuta conquista dei principali comuni, anche il vagone dell’Umbria si è aggiunto alle altre 11 carrozze già agganciate al treno di Salvini.

Hanno votato poco più di 400mila persone (un municipio e mezzo di Roma), meno che nelle ultime elezioni europee, ancor meno rispetto al terremoto politico del 2018. Anche per questo, nonostante la propaganda delle destre e le tensioni nella maggioranza, questo voto locale difficilmente provocherà la crisi del governo nazionale.

Il furbo Salvini lo sa e già si prepara al trasloco sotto le due torri per espugnare la roccaforte emiliana. Che potrebbe rivelarsi un altro deserto rosso visto e considerato che un analogo voto anticipato portò, alle ultime elezioni regionali, al record di astensioni a sinistra.

Ma è altrettanto evidente che non mancheranno contraccolpi e scossoni sul governo, soprattutto per l’emorragia vorticosa dei 5Stelle, che perdono a rotta di collo (colpiti soprattutto da una feroce astensione) sia quando si alleano con la destra radicale della Lega, sia quando si legano alla sinistra moderata del Pd post-renziano.

Come se la stessa struttura del Movimento fosse geneticamente costruita su un alfabeto politico-ideologico che ne rende drammaticamente complicata la strutturazione in forza di governo.

Certamente allearsi con la casta politica locale più longeva, peraltro dopo aver contribuito proprio alla caduta della precedente giunta, non ha giovato. Ma non è a livello amministrativo che risiede la crisi pentastellata. Se neppure aver condizionato le anomale alleanze nazionali al raggiungimento di alcuni obiettivi identitari e popolari, come il reddito di cittadinanza, il dimezzamento dei parlamentari e le pene carcerarie per gli evasori, produce consensi, è difficile sfuggire alla tentazione di un ritorno delle origini, né a destra né a sinistra, come propone oggi Di Maio. A meno di rifluire nel ruolo di opposizione. Ma se un baco del governo è in tutta evidenza pentastellato. L’altro, meno appariscente ma altrettanto vorace, è il Pd.

Apparentemente, il partito democratico di Zingaretti può persino tirare un sospiro di sollievo perché lo scandalo umbro dei concorsi, mezzo secolo di opaco governo regionale e, a livello nazionale, la scissione di Renzi, avrebbero potuto risolversi in un crollo. Invece ha retto l’apparato di partito e ha aiutato la lista del candidato-presidente. Resta significativo che, anche nel caso del Pd, più che i voti a tradimento, rispetto alle europee sembra aver pesato l’astensione.

Tuttavia lo scampato pericolo di un crollo elettorale non cambia di molto le difficoltà all’ordine del giorno al Nazareno che, al pari dei 5Stelle, o riesce a dare un senso strategico alla propria funzione nazionale, alla sua progressiva perdita di rappresentanza delle classi popolari annichilite dalla lunga crisi economica e valoriale, o resterà un fragile assemblaggio di ceto politico destinato al progressivo smembramento. Che colpisce, anche in Europa, recentemente in Germania, le forze politiche una volta salde roccaforti socialdemocratiche.

Una destra, incattivita, autoritaria, reazionaria in tutta Europa c’è, e l’Italia ne rappresenta la punta di diamante esprimendo il partito più forte. Mentre la doppia crisi, identitaria e programmatica, del Pd e dei 5Stelle che ancora non sanno cosa faranno da grandi, impedisce lo sviluppo e l’affermazione di una nuova sinistra di governo in un paese, il nostro, che sembra condannato a poterne esibire solo il ricordo archiviato.