La cosa forse più sorprendente del “pacchetto” di riforme costituzionali pubblicate dal Movimento 5 Stelle è lo scarto che corre tra le roboanti dichiarazioni di rottura che le accompagnano («vogliamo rivoluzionare il nostro sistema istituzionale», si legge sul sito di Beppe Grillo) e la pochezza delle innovazioni istituzionali proposte al voto dei militanti: raramente si erano visti rivoluzionari tanto conformisti e poco fantasiosi.

Sarebbe facile ironizzare sull’ingenuità di alcune proposte (il voto ai sedicenni; il coinvolgimento diretto dei cittadini nelle «decisioni importanti»; la previsione di una fantomatica «cittadinanza digitale per nascita»), così come sulla contraddizione tra la partecipazione alla campagna per il No alle riforme renziane e alcune delle modifiche agognate (la riduzione del numero dei parlamentari; l’abolizione del Cnel e delle province; il potenziamento del referendum; l’idea – espressa con il consueto linguaggio “autostradale” di tutti i nostri riformatori – delle regioni come enti di «raccordo»; l’ennesima semplificazione del procedimento amministrativo).

E ancora più facile sarebbe mettere in luce il vuoto di cultura costituzionale in cui molte di tali proposte sono calate: a qualcuno tra i grillini sarà mai venuto il sospetto che l’ampio ricorso ai referendum in Svizzera sia da mettere in relazione con la forma di governo direttoriale vigente in quel Paese?

Più interessante pare, tuttavia, evidenziare la continuità culturale esistente tra le idee costituzionali del Movimento 5 Stelle e le torsioni subite dal nostro sistema istituzionale negli ultimi trent’anni.

La svolta maggioritaria impressa con i referendum elettorali del 1993 ha avuto l’effetto di trasformare il nostro sistema in una democrazia sempre meno basata sulla mediazione politica svolta dai partiti e sempre più incentrata sul ruolo di leader capaci di entrare direttamente in rapporto con gli elettori.

A partire da quel momento, si sono susseguiti lo smantellamento delle strutture partitiche organizzate, la nascita di formazioni volutamente “leggere”, la personalizzazione della contesa politica, la convergenza programmatica dei diversi schieramenti, la rinuncia alla selezione della classe dirigente connessa all’abuso delle primarie (sino all’umiliazione della militanza con l’apertura a tutti della scelta del segretario del partito), l’abolizione del finanziamento pubblico, il disprezzo del compromesso politico ridotto a “inciucio”, il velenoso mito del governo “eletto” la sera stessa delle elezioni (o, come ha detto Mario Dogliani, la funebre retorica del governo “uscito dalle urne”).

Questa idea che niente debba frapporsi alla spontaneità del rapporto intercorrente tra eletti ed elettori – perché altrimenti questi ultimi verrebbero espropriati del proprio scettro – è perfettamente in linea con la concezione politica dei grillini. Basti pensare all’intuizione fondamentale di Grillo, quell’«uno vale uno» su cui il movimento ha costruito buona parte delle proprie fortune: di cos’altro si tratta, se non dell’aperta sconfessione della democrazia rappresentativa?

(E sorprende sentire oggi, a sinistra, voci per le quali l’aggregazione politica in costruzione dovrà esser tale per cui «davvero uno vale uno»).

La rappresentanza implica, di per sé, che uno – il rappresentante – valga per molti – i rappresentati – ed è curioso come i grillini non si rendano conto quanto la loro avversione per la rappresentanza sia in insanabile contraddizione con la riduzione del numero dei parlamentari, altro loro punto fermo: non è difficile comprendere che meno sono i parlamentari, maggiore è il numero di elettori che gli eletti saranno chiamati a rappresentare…

La demolizione dei corpi intermedi, politici e sociali, è stata perseguita con lucidità e tenacia dal capitalismo, che proprio in essi – nei partiti socialdemocratici e nei sindacati dei lavoratori, in particolare – aveva trovato il maggior ostacolo alle proprie pulsioni predatorie. Ridurre la controparte a una moltitudine di individui disorganizzati è stata la precondizione per lo smantellamento della legislazione sociale approvata nel dopoguerra.

Nella loro caparbia pretesa di affermare “senza se e senza ma” la sovranità individuale – «io decido per me, mi informo su internet e non delego niente a nessuno» – i pentastellati si propongono ora come i più solerti esecutori di tale disegno (non a caso, anche i sindacati sono oggetto dei loro strali): ricordando il titolo di un preveggente libro di Marco Revelli, le due destre sono diventate tre.

Rivoluzionare davvero l’esistente implica un’inversione di rotta. Occorre riscoprire il valore della mediazione (che è anche medi-t-azione) politica, operare per la ricostituzione dei partiti e per una rappresentanza che sappia davvero intercettare le domande che salgono dalla società, ridurle a sintesi, trasformarle in progettualità politica.

Molte idee alternative sono circolate durante la campagna referendaria: circoscrivere lo strapotere del governo in Parlamento (per esempio, eliminando l’iniziativa legislativa dell’esecutivo e rendendo inemendabili i decreti-legge), trasformare il Senato in una camera di “raffreddamento” attivabile all’occorrenza, aumentare le maggioranze di garanzia, ripoliticizzare le competenze delle autorità (a parole) «indipendenti», eliminare le anacronistiche specialità regionali, superare la pletora di enti sovracomunali rafforzando (non abolendo) le province, ridare fiato alla rappresentanza nelle regioni e nei comuni, …

A quando una sinistra capace di farsi carico di questi problemi?