Intorno alle 13 di ieri un aereo da caccia russo ha sganciato delle bombe a caduta libera sulle postazioni di tiro ucraine nei campi intorno alla città di Bakhmut. Una nuvola di polvere e fumo si è alzata dai campi e, poco dopo, in lontananza si vedeva solo una macchia nera tra l’oro dei campi di grano. Altri colpi secchi, forse obici, hanno continuato a rimbombare nel cielo uggioso dell’ultimo giorno di giugno. Contemporaneamente, da Lysychansk è giunta la conferma ufficiale, data dal governatore Haidai, che le forze russe sono riuscite ad arrivare nell’area della raffineria a est della città. Tuttavia, il governatore parla di «successo parziale» dei nemici e di «città non ancora assediata».

LUNGO LA STRADA verso Soledar, a lato dell’autostrada verso Lysychansk circa venti chilometri oltre Bakhmut, i soldati si spostano su mezzi civili riadattati alla buona, molti furgoni con i vetri sfondati e vecchie Lada Zhigulì senza più sospensioni posteriori. Il militare che controlla i documenti al posto di blocco dopo aver letto il paese di provenienza chiede se parliamo spagnolo. Si chiama Oleksandr ma si presenta come Alejandro, racconta di aver vissuto per nove anni in spagna – Madrid, Siviglia, Barcellona… – e di essere tornato lo scorso inverno. «Giusto in tempo per questa merda» dice, mentre con gli occhi sembra cercare di abbracciare tutto ciò che gli sta intorno senza lasciare che nulla si sottragga alla sua sentenza.

È amareggiato ma non scontroso, e non si trincera dietro il solito «informazioni riservate» dei suoi commilitoni ma spiega che «a Lysychansk la situazione è cada dia peor (peggiora ogni giorno, ndr)» e che non sa per quanto i suoi riusciranno a tenere. Comunque «oggi si può andare a Soledar» perché «al momento la zona è sicura». In genere, frasi di questo tipo vogliono dire che le manovre ordinate dal Comando sono terminate e che ora i vari reparti sono in posizione. In altri termini, l’artiglieria si è posizionata e si pensa di avere copertura sufficiente per gli spostamenti e per la contraerea. Ma questa, com’è evidente, è solo una valutazione teorica; se all’improvviso i nemici decidessero di inviare dei Sukhoi o dei Mig a bombardare potrebbe cambiare tutto in pochi minuti. Ad ogni modo, proseguiamo verso Soledar, dove un mese fa si diceva che i russi fossero alle porte e dove il presidente Zelensky ha voluto portare il proprio supporto con una visita nascosta ai media.

ALLA SVOLTA verso l’entroterra due carristi armeggiano con i cingoli di un carrarmato più o meno mimetizzato sotto un albero, poco dopo la scritta “Io amo Soledar” sulla pensilina della fermata dell’autobus appare quanto mai anacronistica. Un odore acre di bruciato, forse plastica o pneumatici, accompagna tutto il tragitto. Soledar si presenta come un villaggio-fantasma, tra un ponte e l’altro le case di campagna sono tutte chiuse e per strada non si incontra nessuno se non qualche sparuto gruppo di militari evidentemente stanchi. Qui non ci sono i ragazzi freschi di arruolamento che sempre si incontrano nelle città, vediamo solo uomini dai quarant’anni in su senza giubbotti antiproiettile.

Tre di loro si avvicinano alla macchina per scambiare qualche parola; non hanno interesse a vedere i nostri documenti e non li chiedono neanche. Chiedono (loro a noi!) com’è la situazione a Slovjansk e Kramatorsk e noi gli chiediamo lo stesso di Soledar. “Mmm” risponde un uomo sulla quarantina alto, magro e con gli occhi azzurri profondamente scavati mentre mima il gesto che indica “così così” con la mano. «Russi nei dintorni?». «No no, qui no, di là (indicano verso Lysychansk) ce ne sono molti». E bombardano? «Tutto intorno sì, qui oggi ci hanno risparmiato, per il momento la situazione è tranquilla». Ma la strada verso Lysychansk? Scuotono la testa e un altro militare incrocia gli avambracci come fanno sempre qui in Ucraina quando vogliono dire «assolutamente no».

IN MEZZO A UNA STRADINA sterrata ci sono dei bambini che giocano con un uomo adulto, proviamo ad avvicinarci con discrezione ma l’uomo subito richiama i bambini e urla per farli rientrare. Quando siamo ancora a più di venti metri il gruppo è già tutto in un cortile sbarrato da un cancello di ferro che l’uomo fa sbattere rumorosamente e decidiamo che è meglio non disturbare.
Una signora esce di casa a passo svelto e proviamo a chiederle come va. Si gira con un sorriso forzato e alza il pollice della mano destra, «non vedete? Va tutto benissimo». «Tutto benissimo» ripete mentre si gira e, accelerando ancora di più il passo, si allontana.