Nativa del Tennessee, laureata in storia alla Brown di New York poi in cinema alla San Francisco State, la cineasta sperimentale Lynne Sachs ha elaborato tecniche e linguaggi personali sin da quando nel 1987 prese in mano la sua prima cinepresa 16mm e si inventò un modo per dividere il fotogramma in quattro parti. Il risultato sono i 4 minuti di Drawn and Quartered: due corpi nudi e il desiderio di filmare una donna (se stessa) oltre le convenzioni del «piacere visivo» maschile. È stata poi allieva e collaboratrice di Bruce Conner, Trinh Minh-ha, Chris Marker e con il marito Mark Street ha nutrito per anni un’amicizia con Barbara Hammer a cui recentemente ha dedicato il corto A Month of Single Frames (premio a Oberhausen 2020) composto di immagini girate anni prima da Hammer stessa e affidatele per un uso creativo.

In questi giorni, lo Sheffield Doc/Fest dedica a Sachs un focus incentrato sulla traduzione «come pratica d’incontro con l’altro e di rielaborazione del linguaggio filmico» che propone online (sheffdocfest.com) cinque opere realizzate tra il 1994 e il 2019 e una videolecture sul suo «cinema somatico». In ottobre sarà poi proiettato l’ultimo lungo Film about a Father Who, ritratto a schegge di un padre larger than life: imprenditore e bohémien, seduttore seriale con sei matrimoni e nove figli (tra cui il regista Ira Jr.).

Nel corso di una videochiamata che la coglie in visita alla sorella Dana in North Carolina, le chiediamo come nasce la sua riflessione filmica sull’alterità: «Sono cresciuta a Memphis dove la metà della popolazione è nera. Avevo quattordici anni quando il comune lanciò un programma di integrazione per favorire lo spostamento degli studenti bianchi verso scuole di quartieri a maggioranza nera e viceversa. Quindi presi il bus per andare alla scuola pubblica dall’altra parte della città mentre, pur di evitarlo, molte famiglie bianche decisero di iscrivere i figli a scuole private. Per la prima volta mi ritrovai a essere ’minoranza’ e questo mi aprì gli occhi. Anni dopo, tornai a casa per girare Sermons and Sacred Pictures (1989), un documentario sul reverendo e filmmaker afroamericano L.O. Taylor che aveva lasciato ore e ore di audio e 16mm della vita quotidiana nella comunità nera tra gli anni ’30 e ’40. Mi ritrovai ancora una volta ’altra’ rispetto i miei soggetti, cosa quasi paradigmatica nel documentario, ma io volevo capire cosa significhi girare ’dal di dentro’ come Taylor. Quando i suoi soggetti guardavano in camera, vedevano qualcuno che era parte del loro mondo e mi ha fatto molto riflettere sulla posizione e il privilegio di chi filma».

Opere come «The Washing Society» o «Your Day is my Night» rendono visibili le condizioni di vita e il lavoro di soggetti negati dal razzismo senza feticizzare la miseria ma mostrando il modo in cui ciascuno, pur nella difficoltà, ricerca la bellezza: è una decisione estetica e politica?

Io uso le immagini per esprimere tensioni e suscitare il dubbio senza però dire mai cosa penso o cosa sia giusto pensare. Viviamo circondati da immagini seducenti concepite unicamente per il consumo, da usare e poi gettare, l’estetica che m’interessa invece è quella in cui si crea una dialettica o un cortocircuito tra due immagini tale da innescare un processo di rimessa in discussione delle nostre certezze, di presa di coscienza del modo in cui pensiamo o guardiamo. In questo senso effettivamente la mia ricerca estetica è anche politica.

Quanto coinvolgi i soggetti filmati nella scrittura del film? Penso al modo in cui gli abitanti della piccola casa affollata di Chinatown in «Your Day is my Night» raccontano di sé.

Avrei tanti aneddoti da raccontare sul modo in cui abbiamo costruito collettivamente quel film! Dico solo questo: convenzionalmente oggi si identifica l’autorialità con chi firma la regia mentre i film sono per lo più l’esito di collaborazioni con i soggetti filmati. Un giorno, dopo aver confabulato, alcuni dei protagonisti mi dissero che il film rischiava di essere molto noioso perché parlava «solo» di loro, non c’era un plot, non c’era azione e così decisi di inserire un elemento di finzione, l’arrivo di una giovane portoricana nella casa comune. Loro poi hanno inventato i dialoghi e le reazioni prima di diffidenza e poi di confidenza che si creano tra i personaggi.

Come nasce l’idea di inserire elementi performativi in alcuni dei tuoi documentari?

C’è chi chiama «ibrido» il mio modo di lavorare ma non so se mi soddisfa. L’elemento performativo per me esplicita a beneficio di chi guarda il fatto che ogni linguaggio è rappresentazione. The Washing Society è stata una performance teatrale allestita in alcune lavanderie prima di essere un film sulle donne che lavorano in quegli esercizi. Your Day is my Night invece è un caso particolare: prima ho registrato una serie di interviste con i soggetti sulla loro migrazione, le case in cui hanno vissuto, i letti in cui hanno dormito. Le interviste sono state tradotte, montate e trasformate in una sceneggiatura e in un copione. Durante le riprese ciò mi ha permesso di concentrarmi meglio sulle immagini, su gesti irripetibili, invece che sulla parola.

In «Which Way Is East: Notebooks from Vietnam» (1994) compi con tua sorella un viaggio in un paese in cui sono ancora visibili le tracce della guerra con gli Stati Uniti. La collisione tra i vostri due sguardi rende l’idea di un paesaggio sospeso tra memoria e oblio. Quando giravi hai pensato al lavoro di Claude Lanzmann?

Avevo visto Shoah e trovavo potente la scelta di sollecitare un archivio interiore di immagini senza riproporle esplicitamente con il rischio di validarne in un certo senso l’orrore, chissà se oggi tutti possiedono ancora quell’archivio interiore. Ora penso anche a quanto scrisse Susan Sontag sulla rappresentazione del dolore degli altri ma all’epoca non avevo articolato tutta una teoria prima di filmare. Molte cose sono emerse durante il viaggio, per esempio questa differenza tra il mio sguardo e quello di mia sorella. Nel ’92, il Vietnam aveva riaperto da poco le frontiere a noi americani e Dana viveva ad Hanoi, conosceva la lingua, era già capace di guardare avanti, oltre la guerra, mentre io guardavo indietro, vedevo la storia. C’è una scena in cui una stessa buca nel terreno per lei è un laghetto e per me il cratere di una bomba: le immagini del paesaggio non sono mai univoche.

È allora che hai conosciuto Trinh Minh-ha?

Sono stata sua studentessa a San Francisco a metà anni ’80 e poi sua collaboratrice al suono e al montaggio di Surname Viet Given Name Nam (1989) e Shoot for the Contents (1991). È stata la prima a cui ho mostrato il girato prima che diventasse Which Way Is East ma tutta la sua esperienza in Africa occidentale ai tempi di Reassemblage (1982) e le sue riflessioni sull’alterità e sull’essere outsider sono state importanti per me sin da quando preparavo Sermons in un periodo di intenso dibattito sociale sulla politica identitaria. Lei mi ha aiutata a pensare il posizionamento da cui si operano le scelte di rappresentazione.

«Film about a Father Who» è un ritratto di tuo padre segnato dall’enigma. Il titolo omaggia «Film about a Woman Who» di Yvonne Rainer ma quell’elisione del verbo è sia uno spazio aperto sia una forma di assenza.

Il film fa parte di una serie di ritratti che sto realizzando per capire fino a che punto possiamo conoscere un’altra persona. Odio quando si parla di documentari «che si reggono sul personaggio», non mi interessa fare un ritratto completo di qualcuno, non so se è possibile. È anche di questo che parla il film e in tal senso il verbo mancante apre a molte possibilità: è un film su un padre che… scherza, si comporta male, ha avuto molti figli. Quel che mi interessava però non era riempire un vuoto, trovare delle risposte o scovare segreti ma seguire delle tracce e porre delle domande.