Il rapporto di David Lynch con la Polonia è la storia di un amore magnetico e ricambiato nel corso del tempo. E come se il regista americano si fosse ritrovato in un triangolo della Bermude sulla terra ferma in quel paese che aveva visitato per la prima volta nel 2002 a Lodz su invito di Marek Zydowicz, fondatore del festival cinematografico Camerimage. Un triangolo di cui gli altri due vertici sulla mappa sono i centri di Bydgoszcz e Torun che si trovano nel cuore della Pomerania. Ma è dapprima nella città, conosciuta nel mondo per la sua scuola di cinema, e nella quale si sono formati anche Wajda, Polanski e Kieslowski, che Lynch scopre la Polonia. Vi realizza un servizio fotografico facendo posare delle modelle nude sullo sfondo delle fabbriche dimesse di una della ex-capitali mondiali dell’industria tessile che aveva vissuto giorni migliori. Ancora oggi la principale arteria della città è ulica Piotrkowska che taglia il centro cittadino di Lodz come una cicatrice coperta dalle stelle dalle punte irregolari della Walk of Fame del cinema locale, disegnate dal gigante dell’affiche polacca Andrzej Pagowski. Ulica Piotrokowska resta il vaso pulsante di Lodz irrorando ancora come può le altre strade, quel tanto che basta per non far sprofondare la città in una desolazione post-industriale alla Detroit. Ma ad attirare l’attenzione di Lynch è quel che resta delle filatrici, dei templi di mattoni rossi costruiti a cavallo dei due secoli scorsi dai grandi capitani d’industria, e di uno storicismo architettonico ancora oggi riflesso dell’opulenza degli imprenditori polacchi, ebrei e tedeschi d’antan. La Lodz di Lynch non può essere quella di Kieslowski che nel documentario Z Miasta Lodzi (1968) aveva raccontato gli esercizi fisici del proletariato nella sue fabbriche ancora vive e le vicissitudini dell’orchestra operaia Ciukcza con un ottimismo quasi “roosveltiano”. Lynch infatti aveva scoperto una città in cui i macchinari avevano smesso di funzionare già da tempo ma la scintilla sarebbe comunque scoccata al punto che il regista ha deciso di ambientarvi in parte l’enigmatico lungometraggio Inland Empire (2006). Vi fanno la loro comparsa la filanda di Ulica Ogrodowa e il vecchio cotonificio sulla stessa strada eretto a fine Ottocento dal tycoon ebreo Izrael Poznanski, ora riconvertito in un centro commerciale che ospita anche una filiale del museo di arte moderna di Lodz. Ma gli interni della pellicola sono stati girati nella lussuosa suite Rubinstein dell’Hotel Grand, testimonianza della grandeur cittadina dei tempi andati. Uno sfarzo costruito grazie ai sacrifici operai e le cui ragioni vengono esposte in tutto il loro cinismo da Wajda in La terra della grande promessa (1975), tratto da un romanzo di Wladyslaw Reymont. E sempre a Lodz che Lynch incontrerà un altro Marek, Zebrowski un musicista polacco-americano con il quale il regista statunitense condivide la passione per la meteorologia. I due incidono nel 2007 Polish Night Music, un disco sperimentale dalle rarefatte atmosfere post-industriali. Corroborata da frequenti viaggi in Polonia, la relazione tra Lynch e Lodz si sarebbe potuta cementificare ancora di più se non fosse stato per il fiasco legato alla creazione di uno centro cinematografico che doveva sorgere nella più antica centrale elettrica cittadina. Allora il regista aveva acquistato lo stabilimento dal comune di Lodz per la cifra simbolica di 4’000 zloty (circa 950 euro ndr) tramite la fondazione Sztuki Swiata presieduta dallo stesso Lynch, Zydowski e dal milionario dei detersivi Andrzej Walczak. Ma i pessimi rapporti dei primi due con la sindaca Hanna Zdanowska e la mancanza di garanzie sul progetto avrebbero fatto naufragare l’iniziativa. A quei tempi Zydowicz e Lynch stavano anche progettando la costruzione di un centro festivaliero disegnato da Frank Gehry. L’idillio con Lodz per Lynch e Zydowicz era così giunto al capolinea. La pittoresca e ben più discreta Bydgoszcz con i suoi canali costellati da granai tardosettecenteschi adagiati lungo il fiume Brda, è la città che sta garantendo stabilita progettuale alla creatura festivaliera di Zydowicz dedicata alla fotografia cinematografica e dove sono passati anche Nykvist, Rotunno e Storaro. E da otto anni ormai che a Bydgoszcz si svolge Camerimage, un festival nato a Torun nel 1993, e portato in seguito a Lodz che ne avrebbe ospitato dieci edizioni prima della clamorosa rottura tra Zydowicz e le istituzioni cittadine. Nel corso dei suoi soggiorni in Polonia, Lynch è riuscito a scovare e a fotografare dei paesaggi post-industriali anche in questa città, una passione che il regista americano aveva scoperto molti anni prima durante la lavorazione di The Elephant Man (1980). A circa 40 chilometri da Bydgoszcz è situato invece il centro storico di Torun, iscritto alla lista del Patrimonio dell’umanità dell’UNESCO, e che ha dato i natali a Niccolò Copernico, oltre ad essere la sede storica della fondazione Tumult di Zebrowski, responsabile dell’organizzazione di Camerimage. Il CSW Znaki Czasu è l’esempio perfetto di come un luogo deputato all’arte contemporanea possa funzionare anche in una città di medie dimensioni attirando dodici mesi l’anno un pubblico variegato. La struttura che ha beneficiato in passato della direzione della curatrice serba Dobrila Denegri si prepara ad accogliere nel 2019 una retrospettiva dedicata a Marina Abramovic. A novembre scorso Zydowicz vi ha organizzato invece la mostra “Silence and Dynamism”, in cui erano esposti oltre 400 lavori di Lynch, molti dei quali inediti. Gli schizzi di paesaggi immaginari su scatole di fiammiferi disegnati a penna e i 12 piatti di ceramica che compongono la serie “The Boundless Sea” commissionati da Bernardaud, danno una idea del talento multiforme di Lynch anche lontano dai set cinematografici. Le litografie in cui prevalgono i rossi e i neri mostrano la matrice duchampiana dell’immaginario dell’artista americano. Mentre nei suoi taccuini adolescenziali appare evidente l’influenza di Dubuffet prima del suo ingresso all’Accademia di Belle Arti di Philadephia. Sembra quasi che lo scopo dell’arte di Lynch sia da cercare nella “deformazione del canone hollywoodiano di bellezza e nel sabotaggio dell’identificazione razionale del bene morale con la perfezione fisica”, come ha scritto Marcin Stachowicz nell’interessante pubblicazione che ha accompagnato la mostra a Torun. Ne viene fuori il ritratto di un artista che ha costruito il propio credo artistico sulla continua negazione di ogni principio di kalokagathìa. Dell’ossessione tutta lynchiana per il corpo deforme e dei paesaggi di periferia intrisi di solitudine è già stato detto quasi tutto. L’esposizione di Torun suggerisce che la semantica di Lynch rimanda a Bacon e Hopper mentre la sintassi del suo lavoro resta profondamente neodadaista. Ne sono la prova gli inquietanti assemblage rauschenberghiani di grandi dimensioni esposti a Torun ricoperti di resti organici, colla industriale e “oggetti trovati”. Lynch avrebbe certamente provato una certa affinità artistica con Wladyslaw Hasior, il grande assemblagista polacco scomparso nel 1999. Affinità stilistiche e non di certo spirituali: difficile conciliare il retaggio cattolico del paese ospitante con i precetti della meditazione trascendentale propugnati da Lynch. Eppure il pellegrinaggio su trattore organizzato da una comunità cattolica nella cittadina polacca di Jaworzno in direzione Lisieux, ispirato alla pellicola Una storia vera (1999), ha ricevuto la benedizione informale del regista americano. Segno che la fede che lega ormai da molti anni Lynch alla Polonia è cosa bilaterale e pervasiva.