Sembrano apparizioni fiabesche, quelle figure di donne costruite con gli oggetti più disparati (quasi sempre provenienti da un ambito domestico, che la tradizione ha consegnato alla «cultura femminile»). Tra lillipuziane lavatrici, bamboline, mini tavole da stiro, pillole, pentolame, bigodini, setacci ma anche circuiti elettrici a fili scoperti, ognuna di loro è protagonista – dentro la scatola visiva in cui è riposta e che riecheggia il confinamento esistenziale fra le pareti di casa – di una narrazione inquietante, giocata su due registri: quello di denuncia politica e l’altro ironico. Così, nelle opere di Lydia Sansoni (circa trenta esposte nella mostra L’oggetto femminista. L’arte di Lydia Sansoni negli anni Settanta presso la Casa internazionale delle donne di Roma, a cura di Raffaella Perna, organizzata da Archivia con il coordinamento di Giovanna Olivieri, visitabile fino al 19 marzo) può d’improvviso «rubare» la scena una vecchietta ischeletrita che sembra fare la calza e invece, con i suoi ferri simbolici, scopriamo essere una di quelle «ostetriche» improvvisate per gli aborti clandestini.

IMPAGINATI come in una natura morta seicentesca, gli «oggetti della tortura», in un lato della teca museale, forniscono una tassonomia della tragedia incombente su molte giovani vite quando l’interruzione di gravidanza era illegale. Per questa immediatezza comunicativa potente, Carla Ravaioli nel 1975 definì i suoi assemblage i primi manifesti visivi del femminismo, come riporta in catalogo Perna stessa.
D’altronde, Lydia Sansoni viene dall’arte. Veneziana (classe 1930), aveva studiato scenografia con Prampolini a Brera, ne aveva assaporato il polimaterismo che poi però aveva reinventato con accenti surrealisti. Un uso polimaterico il suo che può considerarsi in antitesi con il maestro, la cui assonanza di materiali diversi mirava ancora a una ricostruzione futurista dell’universo, lì dove Sansoni invece, pur per via di accumulazioni e archiviazioni, scomponeva, irridendo gli stereotipi.

[object Object]

GRAFICA E ILLUSTRATRICE (le copertine di Effe), autrice del libro a fumetti La prima è stata Lilith (1976), direttrice responsabile, insieme ad Antonella Barina, di Strix. Giornale di fumetti e altro, fatto da donne, rivista pubblicata tra il 1978 e il ’79 da una cooperativa di tredici donne, l’artista ha attraversato il femminismo e le sue istanze con una attitudine dadaista dove il corpo-soggetto si trasformava via via in una wunderkammer costellata di sorprese.

COME PER JOSEPH CORNELL, quelle sue bacheche simili a cabinet de curiosité, abitate da frammenti di spoglia quotidianità, creano una serie di atti poetici e cortocircuiti, che scaturiscono dallo stridore di alcuni oggetti combinati. Sono narrazioni, spleen, haiku che raccontano tutta una società e le ribellioni delle donne: in quelle trame imbozzolate si smascherano, ricorrendo al grottesco, gli indottrinamenti e anche gli accenti del militarismo, tronfio corollario del patriarcato anni settanta e duemila