Nell’aprile di due anni fa Partigia, il libro di Sergio Luzzatto dedicato alla storia di una banda della Val d’Aosta nella quale nell’autunno del 1943 visse la sua breve stagione di partigiano Primo Levi, prima della deportazione, fu anticipato con largo entusiasmo da Paolo Mieli sul Corriere della Sera, poi pesantemente criticato dai recensori di sinistra ed esaltato da quelli di destra. Ricostruiva la storia della condanna a morte di due partigiani, eseguita dai loro stessi compagni, e del «segreto brutto» al quale il Levi narratore del dopoguerra aveva solo elusivamente accennato. Partigia si è giovato della polemiche e, cosa rara per i libri di storia, ha venduto bene; nell’aprile dell’anno scorso è uscito in edizione economica negli Oscar Mondadori. Nell’imminenza del settantesimo del 25 aprile abbiamo cercato Luzzatto per porgli qualche domanda sulla memoria della Resistenza, e la prima non poteva che essere molto personale.

Come si è trovato nei panni dello storico di sinistra accusato di intendenza con il nemico, di fornire argomenti ai nemici dell’antifascismo?
Sono stato molto deluso dalla qualità del dibattito mediatico attorno al mio libro. Hanno prevalso le ossessioni identitarie della sinistra. Non parlo della destra, dalla quale mi aspetto sempre poco. Ma se il libro mi è tornato in faccia non è stato per le reazioni dei recensori laureati, piuttosto per quelle dei lettori, in particolare i lettori legati ai personaggi della mia storia. Sono tornato in Val d’Aosta perché subissato di testimonianze di prima o seconda mano. Settant’anni sono tanti, forse troppi dal punto di vista di una memoria collettiva o istituzionale, ma sono pochi da un punto di vista della memoria privata o personale. Lo storico deve muoversi tra queste due dimensioni. Può ricostruire accuratamente quello che trova negli archivi, ma poi si scontra con verità molto più discutibili e provvisorie, che però hanno un tasso di genuinità molto forte. La vita postuma di Partigia mi ha risarcito delle capziose, superficiali e spesso ignoranti critiche di chi magari il mio libro non l’aveva neanche letto.

Se ha continuato le ricerche perché non ha scritto ancora, magari per replicare ai critici?
Volevo fare una lunga prefazione all’edizione economica, poi ho rinunciato. Ho trovato solo conferme alla mia ricostruzione. Avrei scritto per pura polemica. Tenga conto che dalla comunità ebraica ho ricevuto una vera e propria fatwa, attacchi di una modestia culturale imbarazzante. La Resistenza e Primo Levi sono due poli della mia bussola civile, l’ho anche scritto nel libro. Pensavo che ci si potesse avvicinare a questi due oggetti storiografici mettendo da parte la venerazione del cittadino…

Che in lei resta intatta?
Totalmente. Ma la sinistra non si rende conto che finché tratta la Resistenza come il monolite da venerare di 2001 Odissea nello spazio regala gli argomenti del revisionismo alle controparti più indecenti.

Il libro è uscito in pieno battage revisionistico, come poteva non mettere in conto questo tipo di critiche, e di consensi?
Ho detto che sono rimasto deluso, non sorpreso. Speravo però che la sinistra, il fronte culturale antifascista, fossero preparati a fare i conti con la storia che ho cercato di raccontare. Se non altro perché non sono stato certo il primo con questo tipo di sensibilità a scandagliare i versanti più o meno oscuri della storia dei partigiani. La migliore storiografia degli istituti della Resistenza lo fa da tanti anni, almeno dalla fine degli Ottanta. Solo che è condannata a un respiro locale e allora le uniche cose che restano sulla scena del grande pubblico sono i lavori di chi, per esempio il famoso Giampaolo Pansa, in realtà è il primo a sapere che in quelli istituti della Resistenza si fa storia in un modo molto simile a quello che ho cercato di praticare io.

Sul famoso Giampaolo Pansa lei ha un giudizio articolato.
Diversamente da quanti ritengono che tutto quello che ha scritto sulla Resistenza non valga niente, io cerco di distinguere. C’è un primo Pansa, quello dei libri degli anni Sessanta e Settanta dedicati alla lotta partigiana nel Monferrato, secondo me straordinario, pioneristico nel metodo storiografico. Questo confonde le cose, non lo si può accusare di essere un ignorante; mi vengono in mente pochi studiosi accademici che conoscono le fonti e gli archivi come lui. Poi, a partire dagli anni Novanta, ha mollato gli ormeggi ideologici e metodologici e ha finito per scadere in forme narrative pasticciate e inaccettabili dal punto di vista del giudizio storico.

Quest’anno non si è sentita alcuna delle polemiche che hanno accompagnato i precedenti 25 aprile, eppure siamo a un anniversario importante. Secondo lei si sta concludendo, magari per sfinimento, la guerra della memoria?
È un segnale dei tempi. In fondo ancora nel 2005, e moltissimo nel 94-95, il 25 aprile alimentava una forma di polarizzazione ideologica. Certo, allora c’era Berlusconi che disertava le manifestazioni o metteva il maglione girocollo segnalando indifferenza anche con il linguaggio del corpo. Ma penso che se il 25 aprile sta passando più o meno inosservato è perché anche da questo punto di vista il partito della nazione di Renzi non fa prigionieri. Un immenso centro è occupato da un discorso pubblico lontanissimo da qualunque preoccupazione rispetto alla memoria della Resistenza. Una classe politica giovane per anagrafe, giovanilista per ideologia e nichilista dal punto di vista valoriale non ha alcun interesse per i significati profondi del 25 aprile.

Sta descrivendo una rimozione più che una pacificazione.
Eppure non è impossibile che il 25 aprile diventi per noi quello che il 4 luglio è per gli americani o il 14 luglio per i francesi. Non bisogna farsi confondere dalla moltiplicazione delle date, ormai non c’è quasi più giorno che non sia il giorno di qualche cosa. Il 25 aprile – con il 27 gennaio giorno della memoria – rimarrà “la” data. La destra ha perso la sua scommessa e il “giorno del ricordo” funziona al massimo per qualche piccola polemica, non ha la rilevanza civile per stare sullo stesso piano dell’anniversario della Liberazione. Ma i tempi della storia sono lunghi. Gli americani per riconoscersi attorno al 4 luglio come festa davvero condivisa hanno dovuto far trascorrere circa cento anni, fino all’indomani della loro guerra civile. I francesi lo stesso, il 14 luglio è stato per un secolo terreno di battaglia. Mi sembra che il paragone si presti. Perché quando una data segna la fine di una guerra civile è ovvio che non può imporsi dall’oggi al domani. Occorre che passi la generazione di chi quella guerra l’ha combattuta e forse anche la generazione dei figli. Noi, appunto, siamo ai nipoti.

Ho detto prima che non ci sono state polemiche mettendo da parte quella di Roma, perché mi pare si spieghi più con le difficoltà nei rapporti tra la sinistra e la comunità ebraica romana, o per converso con la facilità nei rapporti tra quest’ultima e la destra, che con una diversa visione della guerra di Liberazione. Non crede?
Penso che ci sia anche qualcosa di più: la difficoltà di innestare la politica sulla storia. Quando la comunità ebraica romana dice che è scandaloso cacciare le bandiere con la stella di David perché c’è stata una brigata ebraica, ebrei di Palestina che hanno combattuto insieme con gli alleati, ha perfettamente ragione. Se si vuole restare sul terreno della storia è piuttosto la bandiera di Palestina ad avere poco senso nel corteo del 25 aprile, perché non si ricordano reparti palestinesi che abbiano contribuito a liberare l’Italia ed effettivamente ci sono state forme di compromissione con i nazisti delle gerarchie palestinesi. Il problema è che gli anniversari per definizione parlano del rapporto tra passato e presente. E nei settant’anni che sono trascorsi, la bandiera con la stella di David è diventata anche una bandiera di oppressione, o più esattamente di occupazione dei territori altrui. Se dunque ci domandiamo chi ha maggiore o minore diritto di festeggiare i valori di libertà ed emancipazione del 25 aprile, purtroppo l’Israele di Netanyahu e di un’interpretazione molto distorta e reazionaria dell’ideale sionista ha pochi galloni da appuntarsi. La polemica di tanti filo palestinesi a buon mercato può essere capziosa, ma è purtroppo pertinente.