Quando un poeta scrive in prosa ha due possibilità: emanciparsi dai modi (e più raramente dai temi) già praticati in versi, oppure confermarli in altra veste. Montale, per citare il massimo esempio novecentesco, è andato più vicino alla prima opzione, dotandosi per la scrittura narrativa e giornalistica di uno stile lontano da quello sublime di Occasioni e Bufera. Sereni invece è rimasto in prossimità dell’altra opzione, quasi rovesciando il rapporto tra i due generi: nel senso che, in certi casi, la forma secondaria sembra quella poetica, che affiora idealmente o materialmente (testimoni le carte e gli scritti dell’autore) da una prosa mentale lungamente rimuginata.
Il caso di Mario Luzi è diverso: per lui entrambe le opzioni sono state disponibili, avvicendandosi nel tempo senza annullarsi reciprocamente. Questa caratteristica si apprezza ora con migliore evidenza leggendo l’ampia raccolta di scritti narrativi e di viaggio, pubblicati insieme agli elzeviri e ai ricordi di amici: Mario Luzi, Prose, a cura di Stefano Verdino (Nino Aragno Editore, pp. 383, euro 20,00).

Nel volume, che esce opportunamente nel centenario della nascita del poeta, confluiscono testi diversi: l’edizione di Trame (1982), di cui fa parte anche la Biografia a Ebe (1942), da Luzi stesso definita nella nota conclusiva un«parallelo e controcanto» in prosa del suo libro di poesia Avvento notturno (1940); una serie di prose scelte dall’autore nel 2004, che avrebbero dovuto far parte di una nuova edizione, poi non realizzata (De quibus e altro, in cui rientra anche un vivido ricordo di Tommaso Landolfi); altre prose disperse in pubblicazioni di non facile reperibilità o addirittura recuperate in forma di file e trascritte dai collaboratori di Luzi. (Esempio, quest’ultimo, di filologia digitale che avrà sempre maggior rilievo nell’ambito degli studi su autori contemporanei, per cui alcuni centri, come Pavia, stanno mettendo a punto strutture e protocolli appositi).

Il «bisogno di impiegare la prosa» scriveva ancora Luzi nella nota finale di Trame, era dettato dal desiderio di «stare, anche analiticamente, più addosso alle cose, per studiare da vicino certi tratti […], per ricondurre il linguaggio della poesia a una nuova partenza o per dargli una più duttile e naturale articolazione». Un’esigenza avvertita dapprima intorno al biennio 1943-’44 e poi dieci anni dopo; comunque dopo la prosa lirica, stilisticamente vertiginosa e irripetibile (anche perché improponibile fuori dalla temperie ermetica) di Biografia a Ebe. Quel ‘romanzo’ (ma giustamente Verdino parla piuttosto di récit) si presenta, come scrive il curatore, «ricco di germi […]poi esplosi nella successiva poesia» e di situazioni, come il colloquio con le figure femminili, calate «in un clima di confidenza che non c’è nelle coeve poesie dell’Avvento, più algide». La nascita alla prosa di Luzi è dunque all’insegna di uno sperimentalismo, forse anche involontario, che almeno in parte alimenterà la successiva produzione in versi.

È proprio quella maniera arabescata a risultare più datata (e del resto, come si è detto, è lo stesso autore a collocare negli anni successivi alla Biografia la vera necessità di una scrittura in prosa). Un esempio: «Ritenterò così la dolcezza ora che è noto il nome e l’impero del deserto nell’epilogo di queste donne, per la strada dell’esatta pianura. Poiché talvolta conviene meravigliarsi che la tristezza abbia trovato i suoi giusti confini, come fu inerte e compiuto l’incontro con questa àncora bianca di marmo appena profonda da intrattenere la celerità del bassopiano». È un io, quello che qui prende la parola, sprofondato nei minimi trasalimenti dell’«uomo ermetico» stigmatizzato da Calvino nel Midollo del leone. Ma sarà lo stesso Luzi, e non da solo, a fare i conti con quell’eredità e a prenderne le distanze. Emblematico, in tal senso, il passo di una prosa che si legge proprio in quest’edizione, il Taccuino di viaggio in Cina (1980), resoconto di una missione per il Sindacato nazionale degli scrittori italiani, intrapresa in compagnia di Arbasino, Malerba e Vittorio Sereni: «Nel percorso in taxi dall’aeroporto siamo stati identificati come poeti ermetici… “Non c’è scampo” abbiamo detto con Sereni».

Se in Biografia a Ebe l’osmosi tra lirica e prosa è totale, la successiva ricerca di duttilità e articolazione produce una scrittura più esatta, a tratti fin troppo compìta per tensione alla chiarezza. Anche questa seconda maniera si svolge in parte come esperimento e preparazione a una poesia rinnovata o da rinnovare; ma con una coscienza più piena dell’autonomia di un genere rispetto all’altro. L’autore in prosa più vicino a questo Luzi sembra il Bilenchi dei racconti, sia per lo stile sia in parte per i temi: penso ad esempio a Il vocabolario, nel libro luziano delle Trame, da accostare al bilenchiano Un errore geografico, analogo per il soggetto e l’ambientazione scolastica. Come Bilenchi, il prosatore Luzi è uno scrittore senza tempo. Non inattuale, o forse sì, ma per effetto di una scrittura assoluta, remota dagli spazi e dai temi della contemporaneità; si potrebbe in fondo dire di lui quello che Luzi stesso scriveva del quartiere fiorentino dove sorge la chiesa del Carmine, cui intitola una delle prose qui raccolte: «Aveva qualcosa di appartato, una specie di domesticità d’altri tempi in confronto con altre zone magari adiacenti. C’erano spazi tranquilli, piazze, piazzette, vicoli poco frequentati eppure vivi».

Vale anche per la poesia di Luzi? In parte sì, prima ma anche dopo l’exploit di Nel magma (1963), che proietta l’autore fuori da quella «specie di domesticità» in cui rischia di rinchiudersi tuttora la memoria delle sue opere. Rischio da cui sembrano immuni altre ‘corone’ della cosiddetta terza generazione: certamente Sereni, ma – stando alla fortuna critico-accademica – anche Caproni e forse Bertolucci.

Certo conta anche la geografia esistenziale e letteraria del fiorentino Luzi, diversa da quella lombarda di Sereni. «Quello che Firenze trasmette ai suoi» si legge qui nei Paragrafi fiorentini «è paragonabile a una struttura fondamentale, a una grammatica della mente e del senso». La raccolta delle prose illustra in modo ideale come l’immaginario luziano aderisca rigorosamente a quella grammatica, declinata nel paesaggio di una Toscana gotica, antica: San Miniato, Siena, l’Amiata. Questa è la forza ma anche il confine di Luzi, come può mostrare una nota di viaggio più ‘esotica’ (Skyline), scritta di ritorno dagli Stati Uniti: se perfino a New York è possibile «guardare il presente con la lente del passato» vuol dire che niente potrà mai spezzare quella «struttura fondamentale».