«Prigioniero dal luglio ’43, pregoti scrivere non appena occupata Emilia a Maria Luisa Sereni – Felino di Parma comunicandole mio indirizzo e rassicurandola mia sorte. Sto bene, spero esserti compagno lavoro futuro. Ricordami a tutti. Scrivimi o fammi scrivere. Ti abbraccio». A ricevere queste righe, a Firenze, è Mario Luzi. A scriverle, il 20 ottobre del 1944, è «Vittorio Sereni Tenente 81-I-51461 (…) NATO USA PRISONER OF WAR», e il luogo è Oran, nel nordovest dell’Algeria. Lo stesso luogo su cui si chiudeva una breve poesia dello straordinario libro di guerra di Sereni, il Diario d’Algeria, del 1947: «Non sanno d’essere morti / i morti come noi, / non hanno pace…», versi sigillati proprio da quel «caldo nome: oran», in un’attitudine intimamente sereniana a fermare l’attimo concreto nel fluire del tempo, a rammemorarlo fissandolo alla precisione di un momento o magari proprio di un toponimo. La cartolina postale del soldato Sereni è certo il momento più drammatico dello scambio fra i due poeti, ora pubblicato da Aragno: Le pieghe della vita Carteggio (1940-1982) (pp. 149, € 15,00). La curatrice, Francesca D’Alessandro, ha raccolto 42 lettere di Luzi – conservate presso l’Archivio di Luino – e 13 missive di Sereni, custodite invece da Stefano Verdino, che ne aveva già fornito qualche assaggio nella Cronologia e nei materiali critici del ‘Meridiano’ di Luzi, edito nel 1998.
È dunque soprattutto Luzi a farsi sentire, fra le pagine del carteggio, con il suo sguardo su un poeta e amico che, come lui, parte da posizioni vicine a quelle dell’ermetismo – quando Luzi è già l’autore de La barca (1938). Proprio del citato Diario d’Algeria Luzi percepisce subito la grandezza, o anzi la «vivacità così segreta», leggendone i primi anticipi in rivista – su «Costume» – nel settembre del ’45. Il che fornisce l’occasione allo stesso Luzi, pur nell’estemporaneità della scrittura epistolare, per qualche preziosa definizione della voce poetica del suo interlocutore, come per «l’inclinazione» sereniana «a un plurale veramente amorevole e confidente» (e così si comincia fra l’altro a intravedere, già a quest’altezza, un soggetto sereniano disponibile a uscire dalle catene troppo strette di un io poetico seccamente monologico, come compiutamente accadrà nel Sereni degli anni sessanta e oltre). E a cercare immagini che diano forma alla ‘grana vocale’ di Sereni, Luzi continuerà anche più tardi – una «voce discreta ma insinuante e, sotto, travolgente come un gorgo», una «musica decentrata» che cerca «improvvisamente delle pienezze» –, il che è sintomo di un assenso alla sua poesia proclamato senza mezzi termini («Tu sei l’unico poeta italiano che mi interessi davvero e a fondo, a parte il vecchio Montale», scrive Luzi nel ’63). Ma sono intanto da tenere presenti, nei mesi successivi alla Liberazione, le rassicurazioni riservate al Sereni reduce di guerra: «Io sono sicuro che, se anche tu possa essere mortificato, questi anni non saranno perduti per te, per la tua voce di poeta». Ha certo ragione, Luzi, a individuare pur implicitamente nella condizione della prigionia una sorta di dolorosa miniera, per Sereni, il primo tramite per un profondo ascolto di sé e dell’esistenza: ovvero «la facoltà (…) di cogliere le “nuances”, le pieghe della vita e di farle profondamente risuonare» (così Luzi in una lettera dei primissimi anni cinquanta). Viene da pensare, allora, a come tale capacità di «nuances» racconti perfettamente l’intera parabola di Sereni, fino al conclusivo Un posto di vacanza, dove il poeta-scriba è «custode» di «certi attimi», di certe intime faglie e di certi soprassalti dell’io.
A questo riconoscimento di una sensibilissima sonda interna – che permette a Sereni di portare faticosamente alla luce i propri versi, più che di inventarli – Luzi dovrà suggestivamente tornare. Offrendoci, in uno dei passaggi più belli dell’intero colloquio, una sorta di istantanea della poesia dell’altro: «Riconosco la tua inconfondibile maniera di esitare nella vita e di captarla» (righe inviate sul finire dell’estate del ’64, e dietro cui preme, forse, un ricordo dello stesso Diario algerino, la «mia vita / esitante sul mare» della splendida «Dimitrios»). Al contempo, ritraendo così il poeta luinese, Luzi sta parlando, un poco, anche di se stesso, se un’analoga esigenza di captare il «reale» era rivendicata anche per sé, e quasi con le stesse parole, in una lettera dell’anno precedente.
È proprio in questo frangente – fra l’uscita di Nel Magma (1963) e quella de Gli strumenti umani, solo due anni dopo – che queste due grandi esperienze di poesia si avvicinano fin quasi a sovrapporsi, in un vivo contatto su cui insiste giustamente l’introduzione della curatrice, puntando per esempio sulle affinità di una lirica come la luziana «Presso il Bisenzio» con un testo fra i più importanti degli Strumenti umani, «Un sogno». Se Luzi individua un terreno comune fra questi due libri, destinati a giocare un ruolo decisivo per le sorti del nostro secondo Novecento poetico, nella capacità di un io lirico vitalmente in crisi di «lasciar parlare le cose» e di liberarsi di «molte soggettive parzialità» – con un’apertura al dialogo in presa diretta che contraddistingue indelebilmente entrambi –, colpisce forse soprattutto lo stupore quasi incredulo con cui Sereni accoglie l’affinità, con il suo percorso, dei coevi esperimenti poetici di Luzi: «confesso di esserne rimasto sconvolto. (…) Pensa a come eravamo ‘diversi’ (…) ancora dopo il ’45 e pensa ad ora».
Torneranno poi a dividersi, queste due strade, se solo si pensa al Sereni ultimo, i cui versi saranno invasi dal male e dal nulla, e viceversa a un Luzi che non smetterà mai di ascoltare – dietro le apparenze della realtà – la voce del Verbo, di avvertirne la Presenza («È, l’essere. È. / Intero, / inconsumato, / pari a sé. / Come è / diviene», si legge nel finale dell’ambizioso Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994: eppure proprio certi accenni finali del carteggio – una lettera del ’73, per esempio – ci ricordano che c’è anche un’incertezza luziana, una difficoltà che «rende complicato interrogare (…) la vita per conoscere quale sia un vero bene», al di là di ogni garanzia di trascendenza).
Ciò che resta comunque intatto, per Luzi come per Sereni, è un certo senso di preoccupata ma discreta attesa nei confronti della stella variabile della poesia («il tempo – scrive Luzi nell’82 – si sbriciola e la concentrazione resta un sogno…»), mentre su entrambi aleggia – serenianamente salvifica – l’amicizia: «Io sono sommerso fino ai capelli (…) scuro e triste. Tanto più avrei voglia di abbracciarti una volta tanto, vecchio mio. Tuo Mario».